lunedì 29 aprile 2013

In un secolo sono scomparse il 75% delle varietà di frutta

29 aprile 2013 - I frutti del passato per garantire un futuro più sostenibile, per salvaguardare la cultura italiana e al tempo stesso venire incontro all’esigenza, sempre più sentita, di mangiare cibi sani, privi di alterazioni e veleni.
Questo il tema del seminario ‘Frutti del passato per un futuro sostenibile’ organizzato dall’Ispra, che si è tenuto lo scorso 19 aprile 2013 presso il ministero delle Politiche agricole, in cui i massimi esperti italiani ed internazionali di salvaguardia della biodiversità agraria e recupero di varietà in via di estinzione hanno discusso “su come recuperare le colture perdute in una prospettiva futura, di grande utilità sia per l’aspetto alimentare e scientifico che per quello economico e sociale”.
Infatti, “nell’ultimo secolo, in Italia, alcune specie di frutta come albicocco, ciliegio, pesco, pero, mandorlo e susino hanno registrato una perdita di varietà pari a circa il 75%, con punte massime per albicocco e pero, dal tasso di sopravvivenza varietale di appena il 12%. Nel solo Sud Italia, tra il 1950 e il 1983, è stato riscontrato che delle 103 varietà locali mappate durante il primo sopralluogo, solo 28 erano ancora coltivate poco più di trent’anni dopo. 
Perfino una coltura che è orgoglio dell’Italia, come quella della vite da vino, sembra essersi terribilmente ‘impoverita’ nell’ultimo secolo”. Questi sono alcuni dei dati che testimoniano l’importanza di tutelare la frutta e i prodotti agricoli della nostra storia. Per il made in Italy d’eccellenza, che è il nostro vino, “a partire dalla ricostituzione dei vigneti conseguente alla diffusione della fillossera (insetto dannoso per la vite) avvenuta a fine Ottocento, il numero dei vitigni, coltivati all’epoca in alcune migliaia (400 nella sola provincia di Torino), è sceso nel 2000 a circa 350, di cui 10 soltanto occupano il 45% della superficie vitata italiana”, denuncia l’Ispra.
A livello più generale, uno studio della Fao stima che “tra il 1900 e il 2000 sia andato perduto il 75% della diversità delle colture”. Inoltre, l’organizzazione delle Nazioni Unite prevede che “entro il 2055, a causa del cambiamento climatico, scompariranno tra il 16 e il 22% dei parenti selvatici per colture importanti come arachidi, patate e fagioli”. Per frutti del passato, ‘antichi e dimenticati’, "si intendono quelli che negli ultimi 50 anni hanno conosciuto un lento e silenzioso abbandono, per l’affermazione della frutticoltura moderna o industriale”.
Si trattava “di produzioni localizzate, selezionate in numerose varietà nel corso dei secoli; dovevano resistere a stress biotici causati da funghi, batteri, nematodi e insetti vari, perché non c’erano gli anticrittogamici, e a quelli abiotici dipendenti dalla disponibilità idrica e dalla qualità dell’acqua, dalla qualità della luce, dalla temperatura”.
La sottoutilizzazione delle colture, infatti, “porta anche un impoverimento culturale, tanto più in Italia, paese che per i prodotti di nicchia ha un ruolo importante, con oltre 200 produzioni certificate che rappresentano più del 20% del totale europeo- sottolinea l’Ispra- Le indicazioni geografiche sono una dimostrazione del legame tra territorio, cultura e agricoltura, ma va notato che la maggior parte della biodiversità coltivata e dei saperi tradizionali ad essa associati sono custoditi in una categoria di aziende in genere condotte da persone sopra i 65 anni”.
Finora, le attività di ‘recupero’ delle specie hanno portato a valorizzarne diverse, in funzione di mercati particolari. “Si va da varietà di albicocco come la Tonda di Castigliole in Piemonte- conclude l’Ispra- la Valleggia in Liguria, la Valvenosta in Alto Adige, la Cibo del Paradiso in Puglia, al ciliegio con la Mora di Cazzano in Veneto, il Durone Nero I, II e III in Emilia Romagna, la Ravenna nel Lazio, la Della Recca in Campania, la Ferrovia in Puglia, fino al melo con la Limoncella nel Lazio e in Campania, la Mela Rosa nell’Italia Centrale, la Appio in Sicilia e Sardegna, la Campanino in Emilia Romagna, la Decio in Veneto”.

Fonte: ilcambiamento.it

lunedì 22 aprile 2013

Nuove speranze per rinascita raro cervo cileno

Washington, 22 aprile 2013 - La rara specie di cervo soprannominato huemul del sud (Hippocamelus bisulcus) sta tornando ai suoi habitat naturali in Cile grazie agli sforzi di ambientalisti e enti governativi. L'animale, a rischio estinzione, sta attraversando una fase di nuova prosperita' che lascia ben sperare per il futuro sulla sua sopravvivenza in natura. Lo humuel e' un'icona per il Cile, simbolo dello stemma nazionale del paese sudamericano e dichiarato sette anni fa monumento naturale nazionale. Il cervo che si trova soltanto nella regione latinoamericana della Patagonia gode delle nuove restrizioni per prevenire il bracconaggio che gli hanno permesso di riappropriarsi delle zone di habitat naturale all'interno del Parco Nazionale Bernardo O'Higgins, un vasto "eden" che copre 3,5 milioni di ettari. La rinascita del cervo - ridotto a 2500 esemplari - e' un esempio della fattiva ed efficace collaborazione tra le amministrazioni locali, gli attivisti e gli scienziati nel perseguimento di un unico obiettivo conservazionista. Lo studio che ha valutato le attuali condizioni dell'huemul del sud e' stato promosso da ricercatori dell'Universita' di Cambridge, della Wildlife Conservation Society e del CONAF - la commissione forestale nazionale del Cile. La ricerca e' stata pubblicata sulla rivista Oryx.

(AGI)

sabato 20 aprile 2013

Munizioni al piombo avvelenano condor nel Grand Canyon

San Francisco, 19 aprile 2013 - Le morti per avvelenamento da piombo si moltiplicano tra i condor della California (Gymnogyps californianus) che vivono dentro e intorno al Grand Canyon. Sempre maggiore e', infatti, il numero di uccelli che cade vittima del piombo ingerito dalle munizioni lasciate dai cacciatori negli habitat o nelle carcasse degli animali predati. L'allarme arriva da un nuovo studio condotto da Jeff Miller del Center for Biological Diversity. Il condor e' attualmente classificato dalla lista dell'Unione per la Conservazione della Natura come criticamente a rischio estinzione. "Le continue morti da avvelenamento per ingestione di piombo dei condor potrebbero essere evitate semplicemente iniziando ad optare per munizioni diverse per la caccia, prive del letale "ingrediente"" ha spiegato Miller. Dei 166 condor della California reintrodotti in Utah e Arizona dal 1996, ottantuno sono morti o scomparsi. 

Piu' della meta' dei casi in cui la causa del decesso e' stata accertata e' risultata attribuibile all'avvelenamento da ingestione di frammenti di munizioni al piombo dispersi nei mucchi di budella o nelle carcasse di selvaggina. Il centro e' promotore della campagna "Get the lead out" descritta sul sito www.biologicaldiversity.org

(AGI)

venerdì 19 aprile 2013

NUOVA CROCIATA BRIGITTE BARDOT, STOP MASSACRO CANI THAILANDIA
Lettera a premier per fermare il traffico.


Nuova crociata di Brigitte Bardot, ex icona del cinema francese, da anni impegnata in battaglie per la difesa degli animali con la sua Fondazione: B.B. ha chiesto alla premier della Thailandia, Yingluck Shinawatra, di fermare il traffico di cani, uccisi in mattatoi clandestini per la loro carne e le loro pelli. "Tha Rae, nel nord-est - scrive B.B. in una lettera accorata alla primo ministro di Bangkok - è il luogo di un immondo traffico in cui si uccidono i cani per le loro carni e le loro pelli in mattatoi clandestini dopo averli catturati selvaggiamente sul ciglio di qualche strada o rubati al loro padrone". L'ex simbolo del cinema francese, sottolinea che "ogni anno 100.000 cani vengono uccisi sul posto e altrettanti o anche di più vengono illegalmente esportati vivi da tutta la Thailandia in condizioni atroci, accatastati e affamati per oltre 36 ore di strada, dopodiché vengono brutalmente uccisi e consumati in Vietnam".
Brigitte Bardot invita la premier thailandese a prendere visione di un documentario realizzato da attivisti thailandesi e potato su YouTube con il titolo 'Inferno sulla Terra - il commercio della carne di cane in Thailandia', che "non può lasciare indifferenti".
La Fondazione Bardot e la fondazione thailandese Soi Dog combattono insieme "per una gestione umana" dei cani randagi in Thailandia. Secondo la Fondazione Bardot, "il 70% dei cani seguiti dalla Fondazione Soi Dog muoiono per fame, ferite e malattie. Il 10 aprile, 1.000 cani sono stati ammassati nei camion clandestini". Simbolo del cinema negli anni Sessanta, la bionda B.B.
scoprì negli anni Settanta la sua passione per gli animali, scatenando una prima vasta campagna internazionale contro il massacro delle foche ad opera di Canada e Norvegia. Nel giro di qualche anno, la battaglia dell'attrice riuscì a mobilitare istituzioni nazionali ed europee. Nel 1986, la Bardot creò a Saint-Tropez, in Costa azzurra, la fondazione che porta ancora oggi il suo nome, vendendo all'asta - per finanziarla - gioielli, abiti, foto e manifesti con dedica degli anni d'oro della sua carriera. Le sue battaglie più recenti riguardano la richiesta di obbligare a stordire preventivamente gli animali abbattuti nel rito musulmano dell'Aid el-Kebir e il salvataggio di due elefanti affetti da tubercolosi nel parco della 'Tete d'Or' di Lione, destinati al macello.

19 apr 13

(ANSA)

mercoledì 17 aprile 2013

L'esercito delle lumache giganti che sta invadendo la Florida
Importate illegalmente negli anni '60 stanno ora tornando a diffondersi: mangiano piante, plastica, stucco e copertoni e sono anche pericolose per la salute. Ecco perché sono così diffuse e come si sta cercando di debellarle.

 Sono grandi come ratti, hanno una fame incontenibile e ovunque vadano lasciano dietro di sé una lunga scia di bava. Scordatevi le chioccioline che vedete uscire allo scoperto nelle giornate di pioggia: le lumache che stanno disseminando il panico nel sud della Florida sembrano uscite direttamente da un B-movie degli anni '60 (guardale, se hai il coraggio, in questa viscidissima gallery)

Le chiocciole giganti africane (Achatina fulica) originarie dell'Africa orientale ma diffuse da tempo anche alle Hawaii, sono considerate una delle specie invasive più distruttive: nel loro menù figurano oltre 500 specie di piante, ma sono ghiotte anche di plastica, stucco (che usano come fonte di calcio per ricostruire il proprio guscio), copertoni e in generale di qualunque cosa verde si pari sul loro cammino.

Da settembre 2011, la data della loro ultima "invasione", ne sono state catturate 117 mila e si calcola se ne eliminino un migliaio alla settimana. Ciò nonostante, complice la fine del periodo dell'ibernazione e l'imminente stagione delle piogge, che in Florida inizierà tra 7 settimane, i residenti potrebbero incontrarne moltissime in strada, in giardino e persino in casa.

 Dalle Hawaii con furore
A importarle illegalmente per la prima volta dalle Hawaii fu un giovane di Miami nel 1966. Il ragazzo, viste le dimensioni e la propensione dei molluschi all'interazione con l'uomo, voleva tenere i tre esemplari raccolti come animali domestici, ma la nonna li liberò in giardino, dando origine a una piaga per l'agricoltura che richiese 10 anni e un milione di dollari per essere estirpata. Il pericolo sembrava scampato, quando nel 2011 le autorità hanno assistito a una nuova diffusione.

Questi animali, che raggiungono i 21 centimetri di lunghezza (guarda) e sopravvivono anche 9 anni, si accoppiano in continuazione: dotati degli organi riproduttivi sia femminili che maschili, in un anno possono produrre anche 1200 uova. Alle Barbados, dove sono più diffuse, arrivano a forare con i loro gusci gli pneumatici delle auto e si trasformano in veri e propri proiettili quando vengono sparate in aria dalle lame rotanti dei tosaerba.

Voraci e contagiose
Oltre a costituire una minaccia per l'agricoltura i molluschi sarebbero pericolosi anche per la salute: sono infatti portatrici di vermi nematodi parassiti dei ratti che entrando a contatto con l'uomo tramite il muco delle lumache, possono trasmettere gravi forme di meningite tropicale. Per questo le autorità hanno invitato chiunque a non toccare le chiocciole (anche se non tutti rispettano il divieto: guarda) e a disinfettare le superfici contagiate dalla loro bava.

Per debellarle si sta utilizzando un molluschicida a base di metaldeide. Le piogge imminenti dovrebbero stanare più facilmente le chiocciole ancora nascoste. Una strage di animali che si sarebbe potuta evitare se l'uomo non le avesse portate fuori dal loro habitat naturale: l'importazione di lumache negli Stati Uniti è illegale, così come quella di altri animali esotici come il pitone delle rocce birmano (Python bivittatus), che nello stato ha creato molti problemi lo scorso anno.



17 aprile 2013

www.focus.it
BALENOTTERE IN SANTUARIO ALTO TIRRENO SONO A RISCHIO COLLISIONI CON NAVI
Su rotte per Corsica e Sardegna


17 apr 13 - Tempi duri per le balenottere comuni che frequentano il bacino ligure-provenzale, nell'area del Santuario dei mammiferi marini Pelagos. Questi grandi cetacei, minacciati di estinzione e secondi animali del Pianeta per dimensioni, sono a 'rischio collisione' con le navi che viaggiano oltre i dodici nodi, in particolare d'estate a causa del grande traffico. La conferma arriva da un recente studio del Joint Research Centre, il servizio scientifico interno della Commissione europea, che ha incrociato i dati sulla mappatura degli habitat favorevoli alla 'Balaenoptera physalus' (Balenottera comune) tramite rilevazioni satellitari, con quelli del traffico marittimo.
"In tutto il Mediterraneo - spiega Jean-Noel Druon, uno degli autori dello studio - si stima che la popolazione di balenottere comuni arrivi complessivamente a circa tremila individui. Si tratta di un numero limitato variamente distribuito nell'habitat potenziale a disposizione, carico del krill di cui si nutrono". Nella zona del Santuario Pelagos "la densità del traffico marittimo raddoppia d'estate rispetto al resto dell'anno, con una distribuzione non omogenea e un picco dei traghetti veloci verso Corsica e Sardegna" aggiunge Druon.
"Allo stesso tempo c'é una concentrazione di habitat favorevole alla nutrizione delle balenottere" spiega il ricercatore, secondo cui quindi nella bella stagione "c'é un rischio più importante di collisione" per questi grandi cetacei. Una situazione diversa rispetto a quella del Mare di Alboran, fra Spagna e Marocco, dove il traffico marittimo è decisamente intenso, dieci volte maggiore rispetto a quello estivo nel bacino ligure-provenzale, ma che registra una presenza di balenottere molto più bassa. Tanto che si suppone che sia questo super-traffico a creare disturbo per la specie, che cerca appunto di evitarlo.
Come rimediare al rischio collisione nel Santuario? "Nella zona costiera intorno a Boston - spiega Druon - hanno creato un corridoio ristretto dove le navi devono viaggiare ad una bassa velocità, ma in mare aperto è difficile fare la stessa cosa, anche perché il Santuario è una zona più ampia e con aree di habitat molto variabili da un anno all'altro". Un'altra ipotesi esiste, anche se è costosa, ed è quella di collocare dei sistemi di telerilevamento del soffio dei cetacei a bordo delle navi oppure delle "boe intelligenti" lungo le rotte, che trasmettano la posizione degli animali in tempo reale, dando modo alle imbarcazioni di rallentare. Un'alternativa consiste nell'installare a bordo un sistema di posizionamento dei grandi cetacei appena avvistati da altre navi, permettendo una vigilanza rinforzata. Questo sistema avrebbe anche un vantaggio: permetterebbe una maggiore partecipazione e sensibilizzazione sia del personale di bordo che dei passeggeri, che potrebbero seguire gli avvistamenti su schermi a bordo o anche sul proprio smartphone.
 


Chiara Spegni - (ANSA)

martedì 16 aprile 2013

L'Indonesia proroga la moratoria sulle foreste primarie

15 aprile 2013 - Il ministro indonesiano delle Foreste, Zulkifli Hasan ha riaffermato l'impegno del governo indonesiano all'attuazione della moratoria sulla conversione delle foreste primarie e torbiere in piantagioni. Lo ha annunciato in occasione del vertice ONU sulle foreste (UNFF), tenutasi a Istanbul. Secondo il ministro, il mantenimento della moratoria è compatibile a una crescita economica del 6,3%, lo stesso segnato tra il 2009 e il 2013. Il ministro ha anche annunciato misure volte a proteggere ulteriori aree di foresta, a combattere l'illegalità nel settore forestale, e a facilitare l'accesso alle risorse forestali da parte delle comunità locali.

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lunedì 15 aprile 2013

Trovato in sud Sudan raro pipistrello 'zebrato'

15 aprile 2013 - Washington - Un raro pipistrello rilevato nel Sudan del Sud era stato erroneamente classificato negli anni Trenta del secolo scorso come appartenente al genere Glauconycteris. Da allora fino a oggi gli scienziati avevano incrociato solo cinque esemplari di questo animale, cosa che ha reso difficile conoscerlo a fondo nel tempo. Adesso un nuovo studio promosso da DeeAnn Reeder della Bucknell University e Adrian Garside del Fauna & Flora International (FFI) Programme ha scoperto che il raro pipistrello 'zebrato' (e' caratterizzato da chiazze e strisce bianche e nere), non appartiene a una specie gia' esistente ma in realta' e' l'esponente di un genere del tutto nuovo. 

Il team ha dato all'inedito genus il nome di Niumbaha, parola che in Zande, lingua del popolo Azande che vive nell'area sudanese in cui e' stato catturato per la prima volta, significa "raro" e "insolito". "Si tratta di una scoperta molto importante che mette in luce l'importanza biologica del Sudan del Sud come un paese che ha molto da offrire e da proteggere in termini di biodiversita'" ha spiegato la Reeder. La specie e' stata descritta nei dettagli nell'articolo 'A new genus for a rare African vespertilionid bat: insights from South Sudan' pubblicato sulla rivista 'ZooKeys'.

(AGI)
STUDIO UNIVERSITA' POSTICIPA L'ESTINZIONE DEL LEONE BERBERO
Pubblicato da "Plos One".


Il momento in cui si classifica un animale come estinto non sempre coincide all'esatta sparizione in natura dell'intera specie. Spesso, infatti, puo' accadere che tra le due fasi trascorrano anni e persino decenni. Lo sostiene una nuova ricerca condotta da Simon Black e David Roberts del Durrell Institute of Conservation and Ecology dell'Universita' del Kent che ha dimostrato che il leone berbero, avvistato per l'ultima volta nel 1942 e conseguentemente dichiarato estinto, e' probabilmente sopravvissuto sino agli anni sessanta del secolo scorso. Il team e' giunto alla conclusione dopo aver analizzato vecchi campioni, registri, fotografie, studi e articoli pubblicati. I risultati hanno rivelato che i leoni sono esistiti in Nord Africa fino almeno al 1956, presupposto che lascia supporre che questi animali abbiano continuato a muoversi in branchi ridotti e siano passati inosservati per altri anni fino alla totale estinzione. Lo studio fa luce, inoltre, su un fattore importante: i pochissimi leoni berberi rimasti, accolti in alcuni zoo in Marocco e in Europa, dovrebbero essere inseriti in programmi di conservazioni efficaci perche' potrebbero essere diretti discendenti dei leoni berberi estinti in natura e rinchiusi nel serraglio reale di Rabat negli anni venti del secolo scorso dalla Casa Reale del Marocco. La ricerca "Examining the extinction of Panthera leo in North Africa and its implications for felid conservation" e' stata pubblicata sulla rivista Plos One. 


15 apr 13

(AGI)

domenica 14 aprile 2013

Cuore sano = cuore vegetariano
Nuova scoperta sulla relazione tra consumo di carne e aterosclerosi.

Fonte notizia 14 aprile 2013 - Un nuovo studio condotto dai ricercatori della Cleveland Clinic's Heart and Vascular Institute ha sottoposto a indagini cardiologiche un gruppo di 2595 pazienti, suddivisi in tre gruppi (onnivori, latto-ovo-vegetariani e vegani), e ne ha valutato i livelli di carnitina, di TMAO (trimethylamine-N-oxide) e il rischio cardiovascolare.
Lo studio ha evidenziato come nei soggetti che presentano più elevati livelli di TMAO, livelli plasmatici più elevati di carnitina risultino associati con un maggior rischio di cardiopatia, infarto, ictus cerebrale e morte.
La carnitina è una sostanza che si trova nel muscolo e interviene nell'utilizzo dell'energia da parte del muscolo stesso. Oltre ad essere presente nelle carni (=muscolo animale) è ampiamente utilizzata dagli sportivi come integratore e viene persino aggiunta ad alcune bevande “energizzanti”.
La TMAO è un prodotto che deriva dalla trasformazione della carnitina stessa ad opera dei batteri intestinali, e che potrebbe favorire l'aterosclerosi, cioè la comparsa di ispessimento e indurimento delle arterie. I livelli di TMAO sono quindi determinati dal tipo di flora batterica intestinale.
La flora intestinale degli onnivori, che assumono le maggiori quantità di carnitina, produce anche più elevate quantità di TMAO, e questa combinazione potrebbe essere responsabile per loro un maggior rischio cardiovascolare. Per contro, la produzione di TMAO da parte della flora batterica intestinale dei vegetariani (latto-ovo e vegani) risulta essere molto più bassa.
La carnitina è infatti virtualmente assente nelle diete vegetariane (sia latto-ovo che vegane), e i vegetariani che non utilizzino fonti artificiali di carnitina di fatto non la assumono con la dieta, cosicché essa non arriva all'intestino producendo metaboliti dannosi. L'organismo umano è in grado di produrre da solo la carnitina che gli serve, nella quantità adeguata, a partire anche da fonti vegetali, quindi essa non è una sostanza essenziale nell'alimentazione. Questo studio ha mostrato che non solo non è necessaria, ma anzi, maggiori sono le quantità assunte, maggiore è il rischio cardiovascolare.
Ecco quindi che, oltre al legame ormai ben accertato tra grassi animali (cioè grassi saturi e colesterolo) e malattie cardiovascolari, emerge la possibilità che altri composti contenuti nelle carni, come la carnitina e i suoi prodotti di trasformazione, aumentino il rischio di malattie legate all'aterosclerosi in chi mangia carne. Questo può contribuire a spiegare i ben dimostrati benefici cardiovascolari delle diete che escludono la carne, cioè le diete vegetariane. 

Fonte:
Koeth RA, Wang Z, Levison BS, et al. Intestinal microbiota metabolism of L-carnitine, a nutrient in red meat, promotes atherosclerosis. Nat Med. Published online April 7, 2013.

giovedì 11 aprile 2013

MAPPATO GENOMA DEI KOALA, LI DIFENDERA' DA ESTINZIONE?
Obiettivo è sviluppare vaccini


11 apr 13 - Il koala, l'orsetto marsupiale simbolo dell'Australia, potrà ricevere migliori trattamenti contro malattie ancora misteriose che ne minacciano l'estinzione, grazie a un progetto che ne sta mappando il genoma. La squadra di ricerca del Museo Australiano e dell'Università di Tecnologia del Queensland dopo sei mesi di lavoro ha già individuato 12 mila dei 20 mila geni del suo Dna.
"Finora molto poco si sapeva del sistema immunitario dei koala e abbiamo già svelato molti dei suoi segreti, che ci consentiranno di diagnosticare e trattare le due maggiori malattie che lo minacciano e quindi sviluppare dei vaccini", ha detto alla radio Abc il microbiologo Peter Timms dell'Università di Tecnologia del Queensland. La più grave minaccia è la clamidia, che si trasmette sessualmente, causa infecondità e cecità e li porta alla morte. Un altro rischio é un retrovirus che si integra nel Dna dell'animale causando tumori.
I dati raccolti aiuteranno i ricercatori a capire perché nell'est del continente la popolazione dei koala è devastata dalla diffusione della clamidia negli stati del Queensland e del Nuovo Galles del sud mentre più a sud, nel Victoria, gli animali non ne sono praticamente toccati. "Grazie alla sequenza del genoma potremo misurare la risposta immunitaria ai vaccini correnti e adattarli", ha detto Timms.
La ricerca ha inoltre rivelato che la maggioranza delle sequenze genetiche del koala mostra similarità con altri marsupiali come il diavolo della Tasmania, a sua volta minacciato di estinzione da un letale tumore facciale altamente contagioso, che si trasmette tramite i morsi fa maschi rivali. I risultati aiuteranno a capire come trattare anche la malattia che li colpisce, ha aggiunto lo studioso.

(ANSA)

lunedì 8 aprile 2013

La Costituzione del Salvador riconosce i popoli indigeni


Dopo decenni di battaglie, i popoli indigeni di El Salvador saranno finalmente riconosciuti dalla Costituzione - un primo passo verso il recupero dell’identità della loro comunità, sempre negata dallo Stato e dalla società in generale. L’articolo 63 della Costituzione verrà modificato per riconoscere le lingue native e le altre espressioni della cultura indigena che lo Stato non ha mai esplicitamente riconosciuto fino a questo momento.

 "La riforma costituzionale è importante perché dimostra che almeno lo Stato si sta impegnando a lavorare su politiche specifiche per rafforzare la visione del mondo, i valori e la spiritualità dei nostri popoli nativi", ha dichiarato a IPS News l’attivista Betty Pérez, del Consejo Coordinador Nacional Indígena Salvadoreño (CCNIS), che riunisce circa 20 organizzazioni.

Sebbene l’Alleanza Repubblicana Nazionalista (ARENA) abbia respinto la riforma, l’opposizione di destra non ha il numero di legislatori sufficiente per bloccare la sua approvazione da parte della coalizione guidata dal Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (FMLN). El Salvador è tra i firmatari della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel settembre del 2007. Ma fino ad oggi lo Stato non ha mostrato alcun interesse a conformarsi a questo strumento internazionale.

Non esistono politiche socioeconomiche a diretto beneficio di questi gruppi etnici, secondo l’Atlante sociolinguistico delle popolazioni indigene in America Latina pubblicato dall’UNICEF, il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia. L’articolo 2 della Dichiarazione delle Nazioni Unite recita che "I popoli e gli individui indigeni sono liberi ed eguali a tutti gli altri popoli e individui e hanno diritto a non essere in alcun modo discriminati nell'esercizio dei loro diritti, in particolare per quanto riguarda la loro origine o identità indigene!.

"La riforma rappresenta un grande passo avanti, perché questo paese ha sempre ignorato l’esistenza della popolazione indigena, e come risultato di questa negazione sono stati eliminati tutti i diritti di cui godrebbe in quanto popolo nativo", ha detto a IPS Carlos Lara, antropologo all’università di El Salvador.

Secondo l'opinione fino ad oggi comune, gli indigeni in Salvador non esistono più, perché oramai mescolati al resto della popolazione. Secondo questo punto di vista, la popolazione di El Salvador, di 6,1 milioni di abitanti, è 'mestiza' (meticcia), ossia frutto dell’unione tra i popoli indigeni e i discendenti degli spagnoli che colonizzarono questo territorio dal 1524. Ma questa visione in sostanza nega l’esistenza delle comunità native.La riforma costituzionale “risolverà la situazione, perché da questo momento El Salvador verrà definito un paese multiculturale e multietnico”, ha dichiarato Lara.

Secondo il censimento del 2007, i nativi rappresentano soltanto lo 0,2 per cento della popolazione - una cifra che però contestata dalle associazioni indigene e dagli studiosi. Le associazioni indigene, invece, citano l’indagine del ministero dell’Economia, che parla del 17 per cento della popolazione, soprattutto indiani Nahua-Pipil nella parte centrale e occidentale del paese, e Lenca e Cacaopera nella parte orientale. Esistono ancora città, come Santo Domingo de Guzmán nella provincia sudoccidentale di Sonsonate, in cui le popolazioni indigene rappresentano l’80 per cento della popolazione, afferma Lara.

I popoli nativi furono ridotti in schiavitù e sfruttati dai colonizzatori spagnoli e più tardi dai criollo, i creoli - nativi bianchi - le élite che hanno dominato il paese dopo la conquista dell’indipendenza nel 1821.

Ma verso la metà del XX secolo, il riconoscimento degli indigeni in quanto tali cominciò a indebolirsi, lasciando spazio ad una falsa concezione di ‘civiltà’. Bisognava essere molto moderni e civilizzati, e per questo le persone non potevano essere indigene, ha detto Lara.

Nel 1932, il dittatore Maximiliano Hernández Martínez soffocò una rivolta a ovest del paese, uccidendo - secondo stime prudenti - tra le 10mila e le 30mila persone. Dopo il massacro, gli indigeni cominciarono a nascondere le loro radici, e smisero di parlare il Náhuatl, la loro lingua natia, che era vietata dalla dittatura. La lingua Náhuatl era stata portata nell’area che oggi corrisponde all’America Centrale nel decimo secolo da gruppi provenienti dall’attuale Messico centrale, dove questa lingua viene parlata ancora oggi. Tuttavia le varietà Pipil o Nawat usate a El Salvador sono sul punto di scomparire.

08 Aprile 2013 09:12

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sabato 6 aprile 2013

Zanzariera "fai da te"

Imparare a fare un semplice ZANZARE-trappola e contro la dengue zanzare.

Oggetti necessari: Quello che ci serve è fondamentalmente:
200 ml di acqua
50 grammi di zucchero di canna,
1 grammo di lievito (lievito di pane, che si trova in qualsiasi supermercato) e una bottiglia di plastica da 2 litri. [...]

  

Procedura:
Uno. Tagliare la bottiglia di plastica (tipo PET) a metà. Memorizzazione della porzione del collo:
2 °. Mescolare lo zucchero di canna con l'acqua calda. Lasciate raffreddare. Quando è freddo, versare nella metà inferiore della bottiglia.
3 °. Aggiungere il lievito. Non c'è bisogno di mescolare. Crea anidride carbonica.
4 °. Posizionare la parte imbuto, capovolta, nell'altra metà della bottiglia.
5 °. Avvolgere la bottiglia con qualcosa di nero, tranne la parte superiore, e posizionare in qualche angolo della vostra casa.

In due settimane si vedrà la quantità di zanzare che sono morte all'interno della bottiglia.

giovedì 4 aprile 2013

CORPO FORESTALE, LUPO COME 'CARTINA TORNASOLE' DEGRADO ECOSISTEMA
Creato Gruppo di lavoro per tutela con Ispra e La Sapienza.


Salvaguardare il lupo ed insieme la nostra biodioversità. Il lupo è ritenuto un ottimo indicatore del degrado dell'ambiente naturale, soprattutto perché come predatore si trova in cima alla catena alimentare. E' questa la chiave con cui il Corpo forestale dello Stato costituisce un gruppo di lavoro con l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e l'università Sapienza per mettere a punto delle linee guida sulle procedure operative per la salvaguardia del lupo e per qualificare il personale (oltre a incentivare la partecipazione ai progetti Life+).
La Forestale ricorda che più volte si è trovato ad intervenire per soccorrere lupi, in diverse situazioni: lupi avvelenati, lupi investiti, lupi cacciati, su tutto il territorio italiano. Questi animali negli ultimi decenni, dopo una fase di declino, si stanno lentamente espandendo sia numericamente che geograficamente. La cosa buona è che occupando la cima di una catena alimentare - spiega la Forestale - "Il lupo può diventare un ottimo indicatore per stimare il degrado di un ecosistema; la sua sopravvivenza dipende dalle specie che si trovano alla base della catena alimentare".
I lupi sono tutelati da alcune norme, si va dal 1979 con la Convenzione di Berna fino a un regolamento comunitario sul commercio e la detenzione di questa specie. Ci sono anche strutture specializzate come il Centro del Lupo a Popoli (Pe) ed il Centro del Cupone nel parco della Sila (Cs) gestite dalla Forestale.


4 apr 13

(ANSA)

mercoledì 3 aprile 2013

Arrivate solo il 10-15%, le altre sono ora in Nord Africa
Rondini in ritardo e sempre meno numerose
In Italia in dieci anni si sono ridotte del 50%. Rotte diverse tra migrazione primaverile e autunnale

 
Capita un po’ a tutti in questo periodo di guardare il cielo e di chiedersi dove sono le nostre rondini. «A parte quelle poche (circa il 10-15 per cento) che sono già arrivate sulla nostra penisola, la maggior parte si sta affacciando ora sulle coste del Nord Africa. Si tratta di individui adulti, cioè di due o più anni d’età: i più giovani devono infatti ancora mettersi in viaggio perché stanno ultimando la muta del piumaggio», risponde Nicola Saino, professore ordinario di ecologia al dipartimento di bioscienze dell’Università degli studi di Milano.  
PERCORSI DIVERSI - Grazie a una ricerca in corso, finanziata anche da Fondazione Cariplo, Lipu (Lega italiana protezione uccelli), Parco Adda Sud e Università Bicocca di Milano, oggi si sa anche l’itinerario che percorreranno per venire a riprodursi nel nostro Paese, che a sorpresa si è scoperto essere diverso da quello utilizzato per tornare a svernare nel sud del Sahara. «Se in autunno la loro rotta è pressoché una linea retta con direzione nord-sud, in primavera descrivono un itinerario più articolato che si snoda lungo le coste africane dell’Atlantico fino allo stretto di Gibilterra, passa per la penisola iberica e attraversa la Francia meridionale per arrivare in Italia», spiega Saino. Il viaggio primaverile è dunque più lungo di quello autunnale. Se il primo è di ben 7 mila km, il secondo è di «appena» 4 mila km.
 
MAPPATE - A questa conclusione si è potuti giungere analizzando le registrazioni effettuate da dispositivi elettronici assai avanzati, applicati come uno zainetto sulle spalle di cento rondini in estate e rimossi al loro ritorno in primavera. Con questo metodo del tutto originale per lo studio della migrazione, messo a punto dalla Swiss Volgelwarte e utilizzato anche dall’Università degli Studi di Milano, si è capito che le rondini non compiono lo stesso tragitto in primavera e autunno. Un risultato che va contro l’aspettativa di vedere le rondini desiderose di arrivare prima nelle nostre terre per riprodursi (le più tempestive fanno fino a tre covate in primavera-estate) e di tornare con tutta calma a sud del Sahara dopo l’estate.
 
ATTRAVERSO IL SAHARA - «L’allungamento della rotta sembra essere una necessità per questi migratori di lungo raggio che incontrano condizioni ambientali non ottimali sulla loro via», illustri il ricercatore. «Le nostre rondini prima di partire da Nigeria, Gabon, Camerun e Rep. Centrafricana, devono infatti ingrassare e accumulare riserve per attraversare il Sahara, e successivamente devono ancora rifocillarsi prima di superare il Mediterraneo. I cambiamenti climatici, e la conseguente scarsità di cibo, le obbligano ad allungare il loro itinerario».
 
TEMPI STRETTI - Perché allora in autunno percorrono una rotta lineare più veloce? Sebbene debbano sempre oltrepassare il Mediterraneo e il deserto del Sahara, le priorità cambiano e l’obiettivo diventa il rispetto dei tempi imposti dalla loro migrazione. Le rondini devono infatti osservare una tabella di marcia che prevede una routine annuale molto compressa, fatta dal susseguirsi di riproduzione, migrazione e muta del piumaggio. A fine estate non c’è dunque tempo da perdere. Tenendo conto che la migrazione è in un certo senso tempo sprecato, alle rondini conviene tagliare dritto per arrivare al più presto nella prima fascia utile a sud del Sahara, dove almeno possono iniziare a mutare il piumaggio. Un’operazione, questa, che le obbliga a stare ferme in un luogo per quattro mesi circa, e che deve essere rigorosamente ultimata prima di poter ripartire per le nostre latitudini.
 
MANGIATE - A rallegrare i nostri cieli ci saranno senz’altro quest’anno meno rondini dell’anno scorso: in dieci anni il loro numero si è ridotto del 50 per cento in Italia. Colpa dei cambiamenti climatici, della trasformazione degli agrosistemi e degli habitat, ma anche della loro uccisione per mano dell’uomo perpetuata con lo scopo di arricchire la propria dieta con proteine animali. «Continua infatti la strage di decine di migliaia di rondini: in Nigeria vengono catturate di notte con lunghe aste ricoperte con una sostanza vischiosa; nella Rep. Centrafricana e in altre regioni le catturano facendo roteare in aria un amo innescato con una termite», aggiorna Saino. 

RISORSE CONTRO LA CATTURA - Fermare questa moria è tuttavia possibile innanzitutto dando cibo agli abitanti di pochi villaggi che tradizionalmente le cacciano, sfuttando il fatto che in inverno le rondini si aggregano a centinaia di migliaia in piccolissime aree di quei Paesi africani. Ad esempio si potrebbero incentivare le snail farms, piccoli allevamenti di grosse lumache del genere Achatina che si avviano con alcune migliaia di euro e che possono essere una notevole risorsa alimentare; istituendo servizi di sorveglianza alle rondini svolti dai giovani del posto; favorendo il turismo naturalistico sostenibile o promuovendo progetti di conservazione già attuati in parte da alcune istituzioni e organizzazioni locali.

 

(modifica il 3 aprile 2013)

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lunedì 1 aprile 2013


Dai dati registrati nel periodo 1985-2010
Il paradosso del Polo Sud: nel mare si forma più ghiaccio perché fa più caldo
L'acqua dolce e fredda che arriva dai ghiacci sciolti in Antartide forma uno strato superficiale nei mari
 
1° Aprile 2013 - Non è un pesce d’aprile, è uno studio apparso il 1° aprile sulla rivista specializzata Nature Geoscience e riscontrato da un gruppo internazionale di scienziati nell’arco di analisi durate alcune anni. Nei mari che circondano l’Antartide in inverno si forma più ghiaccio galleggiante proprio a causa del riscaldamento globale. Sembra un paradosso, ma le conclusioni alle quale sono giunti gli studiosi spiegano una serie di fenomeni che già altri esperti climatici avevano riscontrato e predetto (nell’emisfero boreale): l’aumento delle temperature porterà in alcune zone più freddo.  

FENOMENI OPPOSTI - Il fenomeno evidenziato nel ghiaccio marino al Polo Sud è l’opposto di quanto visto al Polo Nord: nell’Artico il ghiaccio si sta ritirando a elevata velocità e quello che rimane si sta assottigliando, tanto che alcuni scienziati hanno previsto che nel 2020 l’Artico sarà completamente libero dal pack in estate. In Antartide, invece, il ghiaccio marino aumenta, in particolare in inverno. Qual è la causa? 

PARADOSSO - Secondo Richard Bintanja, climatologo del Reale istituto meteorologico olandese di Utrecht, che insieme ad altri colleghi ha preso parte alla ricerca, il paradosso si spiega con il fatto che lo scioglimento di 250 miliardi di tonnellate all’anno di ghiaccio dalla massa continentale antartica, riversa nei mari un’enorme quantità di acqua dolce che forma uno strato di acqua fredda sulla superficie oceanica, il quale protegge il ghiaccio marino dall'acqua più profonda e leggermente più calda. Gli autori dello studio hanno analizzato i dati di temperatura e salinità registrati dai satelliti e dalle boe oceaniche nel periodo 1985-2010.

DUBBI - Altri scienziati affermano che possono esserci diverse spiegazioni per l'aumento del ghiaccio marino in Antartide. Secondo Paul Holland, oceanografo del British Antarctic Survey di Cambridge, «lo scioglimento di enormi masse di ghiaccio continentale è un fatto, ma non è detto che questo influisca in modo significativo nell'incremento del pack». Holland lo scorso anno ha pubblicato un articolo in cui afferma che l'incremento del ghiaccio marino nel mare di Waddell è dovuto a una diversa distribuzione dei venti circumantartici, basandosi sui dati raccolti dai satelliti sui movimenti dei ghiaccio tra il 1992 e il 2010. In altre aree, come nel mare del Re Håkon, l'aumento del ghiaccio marino è dovuto alla combinazione degli effetti della temperature e del vento. Bintanja replica che gli effetti del vento sono importanti a livello locale, ma a livello continentale sono più decisive le quantità di acqua dolce derivate dallo scioglimento dei ghiacciai.