lunedì 30 dicembre 2019

La sentenza della Cassazione: “Non è reato rubare animali per salvarli dai maltrattamenti”


ANSA


I giudici hanno infatti stabiilito che il gesto degli attivisti non è equiparabile a un furto in abitazione, come era stato deciso in appello. La liberazione dei Beagle non è stato un gesto premeditato e non ha portato un vantaggio agli attivisti: si è trattato di un atto compiuto per salvare gli animali dai maltrattamenti e non per impossessarsene indebitamente.

«L’uomo ha sempre manifestato verso gli animali, in quanto essere senzienti, un senso di pietà e di protezione, quando non anche di affetto. Da qui l’esistenza, in tutte le epoche storiche, di precetti giuridici, essenzialmente di natura pubblicistica, posti a salvaguardia e a tutela degli animali», si legge nelle motivazioni depositate dalla Corte.


«Se l'utilità perseguita dall'autore del furto deve essere connessa alla cosa oggetto dell'impossessamento e non all'azione in sé, non è comprensibile quale sia se si esclude vi possa essere un dolo nel liberare gli animali che sono stati sottoposti a maltrattamenti», aggiungono i giudici. Con l'annullamento della sentenza da parte della corte ora la palla passa alla corte d'Appello, che dovrà prendere una nuova decisione.

www.lastampa.it

domenica 22 dicembre 2019

WaveStar: Energia pulita illimitata dalle onde del mare in Danimarca


8 settembre 2019 - La traduzione letterale dall’inglese di WaveStar, è appunto Stella delle Onde, e sta a significare una brillante idea per la produzione di energia pulita illimitata, sfruttando la forza continua delle onde, superando il concetto di sfruttamento del forte vento del mare con gli impianti eolici offshore.


Idea e concetto innovativo di WaveStar

Il concetto è stato inventato dagli appassionati di vela Niels e Keld Hansen nel 2000. La sfida era quella di creare una produzione regolare di energia onde oceaniche distanti 5-10 secondi.
Ciò è stato ottenuto con una fila di boe semisommerse, che si alzano e si abbassano a loro volta mentre l’onda passa, formando la parte iconica del design di Wavestar. Ciò consente di produrre continuamente energia nonostante le onde siano periodiche.
L’esclusivo sistema di protezione dalle tempeste della macchina, uno dei molti aspetti brevettati del progetto, garantisce la sopravvivenza in mare della macchina e rappresenta una vera pietra miliare nello sviluppo delle macchine a energia d’onda.
L’energia delle onde svolgerà un ruolo cruciale nel garantire il nostro futuro energetico, ma sopravviveranno solo le macchine in grado di resistere alle tempeste più forti.
Le questioni climatiche e ambientali richiedono una rapida diversificazione verso più fonti rinnovabili al fine di soddisfare le nostre future esigenze energetiche. Wavestar lavorerà in armonia con altri metodi di energia pulita per supportare il movimento di energia alternativa e garantire un approvvigionamento continuo di energia pulita. Immagina cosa possiamo fare insieme.

Come funziona

L’impianto di WaveStar trae energia dalla potenza delle onde con galleggianti che salgono e scendono con il movimento su e giù delle onde. I galleggianti sono fissati con le braccia a una piattaforma che si trova su enormi gambe fissate al fondo del mare. Il movimento dei galleggianti viene trasferito tramite propulsione idraulica nella rotazione di un generatore, producendo elettricità.
Le onde percorrono la lunghezza della macchina, sollevando a sua volta 20 galleggianti. Alimentare il motore e il generatore in questo modo consente una produzione continua di energia e una produzione regolare.


Questo è un nuovo standard radicale e un concetto unico nell’energia dalle onde oceaniche o marine; è uno dei pochi modi per convertire la potenza delle onde fluttuanti nella rotazione ad alta velocità necessaria per generare elettricità.

Gli aspetti positivi di WaveStar e il futuro energetico

La macchina Wavestar è meno visibile e più silenziosa delle turbine eoliche e ha anche un impatto positivo sulla fauna selvatica sotto la macchina, creando una zona protetta dalla pesca.
Le macchine di prova e ricerca operano nel Mare del Nord e nei fiordi danesi dal 2006 e sono tra le prime macchine a energia d’onda ad essere collegate alla rete.

Con la macchina da 500 kW in fase di sviluppo, l’azienda ha conquistato una posizione tra i principali sviluppatori di energia alternativa al mondo.

WaveStar punta a renderla la prima macchina da 1 MW prodotta in serie per grandi oceani, pronta per la vendita nel 2017.Wave Star non si ferma qui però. La macchina sarà quindi raddoppiata per dimensioni, in grado di gestire il doppio dell’altezza dell’onda.
Ciò aumenterà la potenza di ogni macchina a 6 MW, consentendo a una singola macchina di fornire energia per 4.000 case.

Almeno sulla carta, questi sono numeri impressionanti. Il progetto Wavestar punta davvero ad essere una delle più importanti innovazioni nel mondo delle energie rinnovabili. Gli oceani del globo insieme rappresentano circa 1,35 miliardi di chilometri cubi. Sono 1.260.000.000.000.000.000.000 di litri d’acqua.
Gli studiosi più importanti del settore credono che se solo una frazione del potere cinetico delle maree oceaniche venisse catturato, ciò soddisferebbe le esigenze energetiche del mondo più volte.

Per questo auspichiamo che il nuovo governo italiano, che si è presentato con un’aurea green e ha messo tra i suoi punti lo sviluppo sostenibile al minimo impatto ambientale attraverso tutte le forme di energia pulita, vista l’abbondanza di territorio marino nazionale, possa individuare quanto prima dei siti adatti a questo tipo di impianti e iniziare a lavorare sin da subito su questo tipo di innovazione tecnologica.

Gino Favola

Fonti:
Wavestar.com
www.wearesalt.org

mercoledì 18 dicembre 2019

Scimpanzé: tra empatia e dolore per la morte





scimpanzé
Gli scimpanzé sono davvero  in grado di comprendere la morte? Sebbene la consapevolezza ci sembri una caratteristica prettamente umana, a quanto pare l’uomo non è il solo ad avere coscienza della morte. Studi recenti hanno infatti dimostrato che anche gli scimpanzé sono in parte capaci di comprendere la morte. 


La consapevolezza: una prerogativa non solo umana 

Anche se in un primo momento è spontaneo pensare che l’uomo sia il solo a comprendere il fenomeno della morte, episodi verificatisi di recente hanno smentito questa convinzione.
A quanto pare infatti, anche gli scimpanzé in parte hanno la percezione della finitezza e sono capaci di provare dolore per la morte di un proprio simile. Tuttavia è ancora da chiarire che tipo di percezione abbiano questi animali di tale fenomeno. La capacità di dare confini e delimitare gli eventi è insita nella natura dell’uomo e quindi, di conseguenza, anche la capacità di delimitare la vita e comprenderne la finitezza lo è. Per quanto riguarda gli scimpanzé questo aspetto è ancora da analizzare.
Non è ben chiaro infatti se le scimmie antropomorfe in questione riescano anch’esse a comprendere da subito la finitezza della vita o se lo realizzino solo al momento della morte di un proprio simile, testimonianza concreta del fenomeno.
Resta però un dato di fatto che dinanzi alla morte di un proprio simile a lui caro, uno scimpanzé non resta impassibile. Egli dimostra un dolore ed un’empatia che denotano una comprensione, seppur parziale, dei fenomeni di distacco e di perdita permanente.


Episodi e testimonianze tra gruppi diversi di scimpanzé 

Diversi esperimenti sono stati effettuati grazie ai quali esperti hanno potuto osservare il comportamento di diversi gruppi di scimpanzé di fronte all’ evento della morte. Tali episodi sono stati una valida testimonianza, nonché prova del livello di consapevolezza che queste scimmie possono raggiungere.
Un episodio rilevante è stato quello osservato dal dipartimento di psicologia della University of Stirling  in U.K. con a capo della ricerca Jim Anderson. In particolare, è stato monitorato il comportamento dello scimpanzé Rosie durante e dopo la morte di sua madre. Rosie e la compagna di lunga data della madre, Blossom, hanno chiaramente mostrato segni di dolore e atteggiamenti ansiogeni.
I due esemplari controllavano il corpo della madre di Rosie ormai morta e le accarezzavano mani e braccia. Inoltre i due scimpanzé hanno manifestato nei giorni seguenti l’evento segni di inappetenza, insonnia ed hanno evitato di tornare nel luogo di morte della madre di Rosie.
Altri episodi di morti accidentali precedentemente descritti non avevano suscitato questo genere di reazioni all’interno di altri gruppi. La caduta di uno scimpanzé da un albero infatti aveva generato solo quella tipica sensazione di frenesia e caos data dalla percezione di un pericolo.


Quando gli scimpanzé provano dolore?

Gli episodi precedentemente descritti dimostrano come i vincoli affettivi giochino un ruolo fondamentale nella percezione del dolore.
Dallo studio del comportamento dei vari scimpanzé è emerso infatti che non tutti gli esemplari reagiscono dinanzi alla morte allo stesso modo. Le reazioni e gli atteggiamenti assunti variano a seconda dei vincoli affettivi che caratterizzano i rapporti tra gli individui. Tale riscontro denota l’importanza che i legami hanno per questi animali e come la diversa intensità delle relazioni che instaurano tra loro amplifichi o minimizzi il senso del dolore.





esemplari di scimpanzé con i propri cuccioli
esemplari di scimpanzé con i propri cuccioli
A quanto pare è dunque proprio la presenza di un legame affettivo che accentua la natura traumatica di un distacco permanente, come quello della morte. La morte infatti impedisce di continuare ad avere contatti con il defunto, rendendo impossibile continuare a prendersene cura. Se un legame forte è caratterizzato, come nel caso di Rosie, da un attaccamento materno, fatto di cure ed attenzioni, la perdita dell’altro ha un forte impatto.



Uomo, gorilla e scimpanzé: un DNA comune, quasi

Grazie ad un’equipe britannica che ha recentemente sequenziato il genoma di Kamilah, esemplare di gorilla dello zoo di San Diego, è stato possibile aggiungere un ulteriore tassello alla questione della parentela tra l’uomo e le grandi scimmie. Si è infatti scoperto che sebbene per il 70% il DNA umano somigli più a quello degli scimpanzé, un buon 15% somiglia più a quello dei gorilla.





esemplare di gorilla da confrontare con quello di scimpanzé, presente nell'immagine successiva
esemplare di gorilla
Era già noto prima di tale ricerca che l’uomo condividesse circa  il 99% del suo DNA con lo scimpanzé comune. Ciò nonostante, è da precisare che lo scimpanzé presenta ben 24 cromosomi che nell’uomo sono poi diventati 23 nel corso dell’evoluzione, grazie alla selezione naturale e alle mutazioni casuali.
Tuttavia, l’aver comparato il genoma di Kamilah con quello dell’uomo ha aperto l’orizzonte a nuove sfide. Nuovi interrogativi sulle linee evolutive sono emersi, lasciando però invariate le fondamenta dell’albero evolutivo.
Queste scoperte però, non devono trarre in inganno. Anche se condividiamo una buona parte del nostro DNA con i gorilla e gli scimpanzé non è la quantità a fare la differenza. Anche minuscole porzioni di DNA diverse possono determinare enormi variazioni e differenze tra individui di diversa specie. Proprio quell’ 1% di DNA non comune, infatti, apparentemente minuscolo, racchiude tutto quello che ci distingue dagli scimpanzé ed i milioni di anni di evoluzione che sono serviti affinché fosse così.
Ciononostante, le differenze tra essere umani e scimpanzé non sono così marcate come molti pensano. Di certo gli aspetti da esplorare sono ancora molti, così come le incognite che circondano questo fenomeno. Una cosa però è certa: non siamo i soli capaci di provare dolore per la scomparsa dei nostri cari

Carla Aversano
www.lacooltura.com

giovedì 12 dicembre 2019

Natura

L’amore della «balena nonna» che si prende cura dei nipoti affamati


Uno studio scientifico sulle orche anziane getta una luce «umana» sulle «killer whales» che lottano per non estinguersi: nei mari del mondo ne sono rimaste 50mila 

di Michele Farina

L'amore della «balena nonna» che si prende cura dei nipoti affamati 
La nonna J2, scomparsa nel 2017 
 
Sappiamo quanto importanti siano i nonni nella crescita dei piccoli umani. Ora la stessa cosa si può dire per un mondo animale apparentemente molto lontano dal nostro: il mondo delle orche. E’ grazie anche al contributo delle «anziane» se le 50mila «killer whales» rimaste negli oceani riescono a sopravvivere (sempre più faticosamente) in un ambiente dove il cibo scarseggia.
Due famiglie
Le famiglie di orche sono matriarcali, con le femmine a guidare il branco. E dunque dobbiamo parlare del ruolo delle nonne, mentre i maschi adulti tendono a vivere solitari ed «egoisti» (un po’ come vecchi «orchi»). Uno studio scientifico apparso sulla rivista americana Proceedings of the National Academy of Sciences racconta la vita delle orche senior all’interno dei clan di appartenenza. I ricercatori diretti da Stuart Nattrass (Università di Hull, in Inghilterra) hanno preso in considerazione due gruppi distinti che vivono lungo le coste americane del Pacifico, tra Stati Uniti e Canada, al largo dello Stato di Washington e della British Columbia. Sono famiglie a rischio di sopravvivenza: la prima conta oggi soltanto 73 esemplari, a cui si aggiungono quattro preziosissime nonne. La scarsità di cibo è dovuta soprattutto alla diminuzione dei salmoni, che costituiscono l’alimento base. Studiando il censimento delle orche negli anni, i ricercatori hanno documentato che dove ci sono le nonne c’è più possibilità che i piccoli crescano sani.
Tanta esperienza
Le nonne orche curano i nipoti mentre le mamme cercano le prede. E loro stesse, con le conoscenze di una lunga vita, sono in grado di ritrovare le migliori zone di pesca per la famiglia. Vita lunga come quella degli umani: le femmine di orca possono arrivare a 80-90 anni. Racconta al New York Times la dottoressa Deborah Giles, del Center for Conservation Biology della University of Washington. «E’ affascinante pensare a queste anziane predatrici dei mari, che spendono gran parte della loro esistenza post-riproduttiva continuando a prendersi cura della famiglia. Non accade spesso nel mondo animale».
Chiave evolutiva
Lo fanno le elefantesse, per esempio. Le orche vanno in menopausa intorno ai 30-40 anni. A quel punto, da una cruda prospettiva evoluzionistica, hanno già «dato» abbastanza. Perché la natura «le fa vivere» ancora così a lungo? E’ proprio il loro amorevole lavoro di cura per il gruppo a confermare il cosiddetto «effetto nonna» di cui parlano gli esperti di biologia evolutiva. Se ci sono le nonne, i nipoti hanno più possibilità di farcela.
Il salmone condiviso
La dottoressa Giles racconta di una nonna orca ribattezzata J2, ripresa dall’alto nell’oceano in un giorno del 2016, un’anno prima della sua morte. J2 detta Granny aveva almeno 75 anni (ma forse anche 100), l’età e le difficoltà l’avevano resa sempre più magra e fragile. Le immagini la mostrano accanto a una piccola, rimasta da poco orfana. La vecchia «balena assassina» quel giorno doveva avere una gran fame, avrebbe potuto divorare il salmone appena catturato in un sol bocconcino, e invece accettò di condividerlo con la nipotina. Ah, che nonna. 

12 dicembre 2019
www.corriere.it

martedì 10 dicembre 2019

Le piante emettono ‘urla ultrasoniche’ quando vengono tagliate

 
10. dicembre 2019 - Siamo abituati a considerare le piante come esseri immobili, inermi, incapaci di comunicare o di percepire l’ambiente circostante.
La realtà è però molto diversa e, se alberi e piante non fossero in grado di comunicare tra loro e reagire alle condizioni esterne non potrebbero difendersi e non avrebbero potuto sopravvivere sulla Terra per centinaia di milioni di anni.
Sappiamo da tempo che una delle strategie di difesa e comunicazione delle piante avviene grazie alla produzione di molecole volatili che fungono da richiamo per gli insetti impollinatori, da repellente per i predatori o che possono servire ad avvisare altre specie su imminenti pericoli.

Un’altra modalità di comunicazione vegetale consiste nell’emissione di ultrasuoni e proprio su questa strategia si sono concentrati i ricercatori dell’’Università di Tel Aviv.

Il recente studio ha indagato sulla capacità delle piante di generare suoni in condizioni di stress, tra cui la carenza di acqua o il taglio degli steli.
I ricercatori hanno effettuato i test sulle piante di tabacco e di pomodoro, posizionando microfoni a circa 10 centimetri e sottoponendo le colture a condizioni di siccità e danni alle foglie e agli steli.

In seguito a eventi stressanti, le piante hanno emesso ultrasuoni tra i 20 e 100 kilohertz, una frequenza non percepibile dall’orecchio umano ma rilevabile da altri organismi fino a diversi metri di distanza.

La ricerca ha evidenziato che il numero di “urla ultrasoniche” emesse dalle piante variava in base al tipo di stress cui erano sottoposte.

Le piante di pomodoro a cui è stato tagliato il gambo hanno emesso circa 25 urla all’ora, mentre quelle di tabacco che hanno subito lo stesso danno hanno generato 15 strilli ogni ora.
Quando le piante sono state private dell’acqua il numero di suoni rilevati è cambiato: nel pomodoro sono aumentati a 35 all’ora, mentre nel tabacco sono scesi a 11.

Le piante che non hanno subito alcun tipo di stress, hanno invece emesso un solo suono nell’arco di 60 minuti.
Perché le piante urlano quando sottoposte a stress e perché il numero delle urla varia in base allo stress subito? Probabilmente si tratta di una strategia per avvisare altre specie non solo del pericolo imminente, ma anche per offrire informazioni sul tipo di pericolo, così che gli altri esemplari possano mettere in atto meccanismi di difesa specifici per affrontare la situazione nel migliore dei modi.

I risultati dello studio, oltre a farci mettere in discussione l’idea che il mondo vegetale sia silenzioso, offrono uno strumento interessante che potrebbe essere sfruttato nella ricerca e in agricoltura.

Per comprendere meglio l’emissione sonora e le interazioni con l’ambiente dei vegetali sono però necessari ulteriori indagini che analizzino ad esempio l’impatto di malattie, stress salino e cambiamenti della temperatura sulla produzione dei suoni.

www.greenme.it

venerdì 6 dicembre 2019

Così si parlano le piante: gli alberi cantano e i semi prendono decisioni

La vita degli organismi vegetali prevede forme di comunicazione e interazione che presentano sorprese. Le radici segnalano allarmi e creano alleanze tra specie diverse 

di Anna Meldolesi
 
Gli alberi cantano. Le piante si scambiano regali. I semi prendono decisioni. A sostenerlo non è qualche profeta del pensiero new age, ma una pattuglia di botanici che scrivono libri di successo e pubblicano studi su riviste prestigiose. La scienza dispone ormai di strumenti tecnologici avanzati per studiare la vita segreta delle piante. E noi cittadini urbani siamo abbastanza stanchi di smog e cemento da aver voglia di guardare le nostre amiche clorofilliane con occhi nuovi.
Esseri sociali
Provate per un attimo a «sentirla» la vita vegetale, come il barone rampante di Calvino che viveva in mezzo agli alberi. Non possono spostarsi, ma cambiare lentamente forma sì. Non hanno neuroni e non sono capaci di astrazioni, ma sono esseri sociali. Altro che stato vegetativo, le piante non sono immobili, passive né isolate come siamo abituati a figurarcele. Un lavoro pubblicato recentemente su Pnas sostiene che nei semi esistono cellule che decidono se germogliare, in modo simile a un gruppo di amici che si accorda per andare al cinema. Mentre è noto che la cosiddetta Venere acchiappamosche è capace di contare. La sua trappola non scatta al primo stimolo, aspetta altri contatti a intervalli ravvicinati, per ridurre il rischio di scattare a vuoto. Certo è solo un fenomeno elettrico, ma assomiglia a una computazione.
Nouvelle vague verde
Se si scomoda la categoria dell’intelligenza vegetale gli studiosi classici finiscono per litigare con i biologi della nouvelle vague verde, che in Italia ha come capofila Stefano Mancuso. Ma su un punto gli studiosi sembrano d’accordo: la botanica sta attraversando una fase di vitalità dinamica. «Con gli approcci figli della genomica è possibile studiare la biodiversità delle molecole. Il linguaggio delle piante è chimico, si esprime nel metabolismo secondario e stiamo imparando a decifrarlo», spiega Renato Bruni, botanico dell’Università di Parma e autore di diversi libri tra cui Le piante son brutte bestie ed Erba volant. L’importante è stare attenti a non antropomorfizzare troppo. «La bellezza delle piante sta nell’essere diverse da noi, aliene», dice Bruni.
Tattiche efficaci
Sotto le foreste c’è una fitta trama di interazioni radicali che è stata soprannominata «wood wide web» come se fosse un’Internet del mondo vegetale. Questa rete consente il passaggio di molecole utili anche tra specie diverse come betulle e abeti, per accorgersene basta tracciarle radioattivamente. Se fossero persone, diremmo che si scambiano dei doni. Alcune tattiche di interazione sono risapute: le piante inviano messaggi seduttivi agli impollinatori, ripagando i loro servizi in nettare, mentre usano sostanze repellenti per tenere alla larga i predatori. Ma le sceneggiature si stanno facendo via via più complicate. Siccome i nemici dei nemici sono amici, quando si è sotto attacco può valere la pena di mostrarsi dolci per attirarli. In altri casi succede il contrario: lo zucchero può essere allontanato dalle foglie vicine a quelle morse da un bruco, per renderle meno appetibili. E se altre piante lì vicino captano nell’aria il segnale d’allarme, meglio per loro: sono avvisate e mezze salvate.
Suoni nella foresta
Fra le scoperte che colpiscono l’immaginazione c’è il fatto che le conifere, in condizioni di siccità, emettono dei suoni per un fenomeno fisico legato al movimento dei fluidi (cavitazione). La musica degli alberi è affascinante, anche se questi schiocchi sono segnali di difficoltà e attirano parassiti pronti a sfruttare l’occasione. Le letture belligeranti comunque sono riduttive, sostiene la rivista Nature Plants. Le piante a volte avviano negoziati con parassiti e patogeni, più che campagne militari. E in fondo è proprio questo che ci piace: che si stringano alleanze tra piante e microrganismi e anche tra piante compagne. «Dopo tanti documentari sulla lotta per la sopravvivenza, con la gazzella che deve correre più veloce del leone, abbiamo la possibilità di una narrazione alternativa. Più amichevole, incentrata sulla cooperazione», conclude Bruni.

(4.dic.2017) 
www.corriere.it

 

martedì 26 novembre 2019

Diceva Konrad Lorenz


nel libro “Vivere è imparare”, Konrad Lorenz (intervistato da) Franz Kreuzer, Lindau, 2018: 
Si può mangiare solo ciò che la fotosintesi delle piante produce con l'aiuto della luce del sole, e questo è l'unico bene di consumo realmente legittimo.

domenica 17 novembre 2019

Evoluzione dei colori delle ali di Heliconius
Interazione tra flessibilità dello sviluppo e determinismo nell'evoluzione dei modelli mimici della farfalla Heliconius

Un team internazionale di scienziati che lavorano con le farfalle Heliconius presso lo Smithsonian Tropical Research Institute (STRI) di Panama si trovava di fronte a un mistero: in che modo le coppie di farfalle, provenienti dall'area situata dal Perù alla Costa Rica, evolvono più o meno con gli stessi schemi geometrici delle ali? La risposta, pubblicata su Current Biology, (1) cambia per sempre il modo in cui l'evoluzione viene compresa. 

La dottoressa Carolina Concha autrice dell'articolo e post-dottorato presso il Smithsonian Tropical Research Institute (STRI), ha affermato: “Il nostro team è il primo a riferire che sebbene l'evoluzione di simili modelli di colore in Heliconius possa essere guidata da forze simili - come i predatori che evitano un particolare tipo di farfalla - il percorso verso quel risultato non è prevedibile. Questo ci ha davvero sorpreso perché rivela l'importanza della storia e delle possibilità nel modellare i percorsi genetici che portano al mimetismo delle ali delle farfalle.” 

I brillanti colori delle ali di Heliconius segnalano ai predatori la tossicità delle farfalle. Modelli di ali maschili appariscenti segnalano alle femmine che stanno scegliendo le specie giuste con cui accoppiarsi. In qualche modo queste due forze, predazione e accoppiamento, portano a simili modelli di ali in gruppi di farfalle isolate nelle valli montane e ai piedi delle Ande. Eliminando un singolo gene chiamato WntA in 12 specie diverse, comprese le loro varianti, i biologi molecolari del team potevano constatare se le farfalle in una coppia, con gli stessi schemi delle ali, stavano usando gli stessi percorsi genetici per colorare e modellare le loro ali. 

Il dottor Arnaud Martin, (2) co-autrice e capo del Butterfly Evo-Devo Lab della George Washington University, ha dichiarato: “supponiamo di dare a due squadre i medesimi blocchi di lego e venga chiesto loro di costruire lo stesso progetto. Ogni squadra svolgerà il compito in modo diverso, ma alla fine, il risultato è lo stesso. Le farfalle affrontano sfide molto più serie: costruiscono strutture fatte di scaglie di ali che sono essenziali per la loro sopravvivenza e capacità di riprodursi.” 

Le domande sul mimetismo delle farfalle hanno incuriosito i biologi per decenni, ma la tecnologia per rimuovere selettivamente un singolo gene in un organismo vivo non esisteva fino a circa cinque anni fa. Ora, con l'editing genico CRISPR / Cas 9, sta diventando molto più facile cimentarsi con il codice genetico. Quando i ricercatori eliminano un importante gene di patterning come il WntA, cambia la struttura microscopica e il colore delle squame che compongono l'ala della farfalla e, di conseguenza, il pattern cambia. Lo studio solleva una serie di domande, come il modo in cui il WntA interagisce con altri geni per finire con un'area che è rossa o nera. Ora il team vuole sapere come viene controllato il gene WntA. 

Il dottor Riccardo Papa, (3) coautore e professore di l'Università di Puerto Rico. ha affermato: “abbiamo appreso che mentre un gene dello sviluppo (WntA) può avere un ruolo importante nell'evoluzione della maggior parte dei modelli di colore delle ali di farfalla, il suo uso preciso per colorare l'ala di una farfalla non è completamente prevedibile. Le specie distinte con identici schemi di colore delle ali, come le farfalle mimetiche, possono evolversi usando strategie molecolari diverse. Immagina le medesie note suonate su strumenti diversi!”
Il dottor Owen McMillan, scienziato del personale e capo del laboratorio di genomica ecologica della STRI, dice: “alcune persone dicono che Panama sia una parola indigena che significa abbondanza di farfalle. I laboratori Smithsonian di Gamboa sono sicuramente uno dei posti migliori al mondo per capire come si evolvono le farfalle e speriamo che ricercatori ispirati si uniranno a noi qui mentre continuiamo a fare domande su queste stupende creature.”

Hanno contribuito a questo studio venticinque autori delle seguenti istituzioni scientifiche: Smithsonian Tropical Research Institute, University of Oxford, del George Washington University, Mississippi State University, University of Cambridge, University of Puerto Rico, Universidade Estadual de Campinas, Universidad del Rosario, University of Chicago and North Carolina State University. Lo Smithsonian Tropical Research Institute, con sede a Panama City, Panama, è un'unità della Smithsonian Institution. L'istituto promuove la comprensione della biodiversità tropicale e la sua importanza per il benessere umano, forma gli studenti a condurre ricerche nei tropici e promuove la conservazione aumentando la consapevolezza pubblica della bellezza e dell'importanza degli ecosistemi tropicali.

Riferimenti:



 

Descrizione foto: un esemplare di farfalla di Heliconius. - Credit: Smithsonian Tropical Research Institute (STRI).

https://www.ecplanet.org/

martedì 12 novembre 2019

Perdita della biodiversità costa 1,5 volte il Pil globale
Sir Robert Watson, vale 145.000 miliardi di dollari l'anno


12 Novembre 2019 - La perdita di biodiversità costa più di una volta e mezza il Prodotto interno lordo (Pil) globale, per una cifra che raggiunge 145.000 miliardi di dollari l'anno: è il dato presentato oggi a Roma da Sir Robert Watson, uno dei maggiori esperti internazionali delle tematiche ambientali e fino allo scorso maggio presidente della Piattaforma intergovernativa promossa dall'Onu sulla biodiversità (Ipbes).

L'occasione è stata l'Aurelio Peccei Lecture, organizzata da Wwf Italia, Club di Roma e Fondazione Aurelio Peccei, con il sostegno di Novamont.

"I cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità - ha rilevato Watson - non possono più essere considerati questioni separate, devono essere affrontate insieme e ora". Per questo "occorre una politica globale" e "senza compromessi al ribasso" e "il 2020 dovrà essere, con i suoi appuntamenti, l'anno di svolta per cambiare rotta". Secondo l'esperto "tra i servizi forniti dalla biodiversità agli ecosistemi, il cui valore è stimato in 125-145.000 miliardi di dollari annui, ci sono impollinazione delle colture e depurazione delle acque, che l'uomo sta minacciando, e anche la protezione dalle inondazioni e il sequestro del carbonio".

Citando un recente rapporto dell'Ipbes (Intergovernamental Science Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), l'esperto ha osservato che "nei prossimi decenni, almeno un milione di specie viventi, su una stima di 8 milioni, saranno in via di estinzione, una perdita del 15% della biodiversità che non indica un'estinzione di massa, ma che è comunque inaccettabile". Il tasso totale di estinzione delle specie è oggi a un livello che supera dalle decine alle centinaia di volte la media del livello di estinzione verificatasi negli ultimi 10 milioni di anni.

In particolare, ha aggiunto, "negli ultimi 50 anni l'intervento umano ha trasformato significativamente il 75% della superficie delle terre emerse, ha provocato impatti cumulativi per il 66% delle aree oceaniche ed ha distrutto l'85% delle zone umide". Oltre il 30% delle barriere coralline è a rischio e dal 1970 ad oggi lo stato di salute di molte popolazioni di diverse specie di vertebrati è declinato del 60%. Questo "sconcertante tasso di cambiamento globale della struttura e delle dinamiche degli ecosistemi della Terra, dovuto alla nostra azione, ha avuto luogo in particolare negli ultimi 50 anni e non ha precedenti nella storia dell’umanità. Le cause principali sono, nell’ordine, la modificazione dei terreni e dei mari, l’utilizzo diretto delle specie viventi, il cambiamento climatico, l’inquinamento e la diffusione delle specie aliene".

Secondo Watson "l'amministrazione ordinaria non e' sostenibile sia per i cambiamenti climatici sia per la perdita di biodiversità" per cui "le azioni dei governi e dei privati sono inadeguate. Serve - ha concluso - un cambiamento profondo e la volontà politica soprattutto nell'utilizzo dell'energia e delle risorse".

Il 2020 deve essere l’anno zero per la salvaguardia della biodiversità: la 15/a Conferenza delle Parti (Cop 15) della Convenzione sulla diversità biologica (CBD) che si terrà a Kunming, Cina e che dovrà approvare la nuova strategia decennale per la biodiversità fino al 2030, la scadenza di alcuni target dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 approvati da tutti i paesi del mondo in sede Onu e i target fissati dell’Accordo di Parigi sul Clima, dall’altro, sono momenti fondamentali per limitare la perdita di biodiversità, e in questa corsa contro il tempo la contestuale lotta ai mutamenti climatici sarà decisiva.

Ma le promesse che i vari paesi hanno sin qui messo a disposizione per decarbonizzare le proprie economie sono inadeguate. L’aumento della temperatura globale, secondo quanto deciso nella capitale francese nel 2015, potrebbe raggiungere il target “ideale” del 1,5 gradin centigradi entro la prima metà del 2030 e di 2 gradi nel 2050-2070. Ma, senza intervenire con azioni molto più decisive di quelle sin qui promesse, già oggi le previsioni al ventennio 2050-2070 parlano di un incremento di 3-4 gradi, ha osservato Watson.

ANSA

lunedì 11 novembre 2019

“Il disordine dei boschi? Si chiama equilibrio e biodiversità”

Tutto quello che viene considerato “disordine e sporco” nei discorsi relativi al bosco è invece vita, biodiversità, equilibrio e protezione del suolo. Eppure un bosco privo di arbusti, fronde e legni lasciati sul terreno, un bosco diradato troppo, un bosco “aperto”, costituisce un disastro ambientale in fieri.



Coloro che parlano di ‘boschi non puliti’ (sporchi?) non si riferiscono a lattine, bottiglie e sacchetti di plastica, pacchetti di sigarette, bossoli e altre schifezze. Si riferiscono ad alberi vivi e morti, arbusti, fronde e legni depositati sul terreno. La cosa più tragica è che molti di loro ritengono che un bosco ‘ben curato’ sia quello ridotto più o meno come un parco cittadino, cioè col terreno nudo e pochi alberi distanziati. Il bosco ‘pulito’ vuol dire un  bosco, ripetutamente sottoposto a ceduazione, un bosco diradato troppo, popolato da precari fuscelli, invaso da rovi e robinie.

Un bosco così ‘pulito’ è un disastro ambientale in essere e in fieri per molti motivi, tanto più oggi, con l’aumento delle temperature, le estati torride e siccitose, le piogge concentrate e torrenziali. Perché? Perché un terreno, come sanno tutti i naturalisti e i contadini biologici, per sopravvivere deve essere sempre ‘coperto’: la terra nuda muore e viene erosa. Coperto dunque di foglie e di erba o di arbusti e alberi o, quantomeno, dalle loro chiome imponenti, da ciò che muore e rimane in posto. Il che vuol dire: se si vogliono lasciare pochi alberi, devono essere talmente grandi e vetusti da coprire con le loro fronde tutto il terreno sottostante. Deduzione: non si può tagliarli ogni venti anni e lasciare solo esili piantine su tanti metri quadri di ripida collina, come consentono oggi alcune leggi regionali, e poi dare la colpa ai “boschi non puliti” quando arriva l’alluvione. In un bosco ‘pulito’ secondo il concetto dei cultori dell’innaturalità, cioè con esili alberini molto distanziati, niente sottobosco e niente frasche e legno marcio sul terreno, al massimo crescerà l’erba in primavera, per seccare impietosamente in estate, esposta ai quaranta gradi all’ombra che sono ormai la norma, senza creare humus e lasciando il terreno esposto e indifeso, conseguenza di una variazione microclimatica: il sole estivo lo calcinerà, le piogge autunnali in presenza di un minimo pendio se lo trascineranno giù nell’alveo dei fiumi, con il prezioso carbonio.

Tutto quello che viene considerato “disordine e sporco” in certi discorsi è invece il “bosco vero”, vita, biodiversità, equilibrio e protezione del suolo; l’ambiente in cui crescono spore, licheni e funghi che nutrono e fertilizzano, nonché il rifugio e il nutrimento per ogni tipo di vita, dai batteri agli uccelli, dai carnivori agli ungulati. Il Bosco non è “Vuoto”, non è solo alberi, è ricco di fauna, è la CASA di tanti.

Ho letto di agronomi e forestali sostenere cose da far accapponare la pelle: chi accusava delle alluvioni l’abbandono dei campi coltivati, chi la presenza del sottobosco, chi la vegetazione ripariale. Il concetto di tutela dei boschi non è questo. Questa è la cultura che abbiamo in Italia: una visione esclusivamente antropocentrica ed economica delle questioni ambientali. Il resto del mondo ha capito da quasi quarant’anni che si tratta di una visione fallimentare. Chissà da noi quanti altri disastri ambientali dovremo subire e combattere, ancora prima che si dia voce a chi di conservazione e tutela dell’ambiente ne capisce davvero.

Oggi si sta partendo all’assalto dei boschi, quei boschi che si sono estesi per l’abbandono dei terreni agricoli, ma ancora boschi poveri di sostanza organica. Ora li vogliono azzerare a sterili boschi cedui, da sfruttare fino all’osso. In realtà sono le grandi aziende della filiera del legno che stanno cercando di essere autorizzate a mettere le mani anche sui boschi.
Anziché una saggia politica del lasciare fare alla natura, affinché i boschi si trasformino in foreste d’alto fusto, si vogliono ritrasformare i cedui ed i cedui invecchiati, che stanno divenendo alto fusto per processo naturale, in cedui semplici, che è come dire il deserto: “boschi di stuzzicadenti”.

Per non dire del consentire la realizzazione di piste e strade ovunque per facilitarne l’esbosco: come se non si costruissero già troppe strade in montagna! Si dice che si vuole controllare il degrado del territorio, impedire frane e smottamenti, che invece saranno facilitati proprio dall’eccessiva apertura di piste e strade senza controllo. Un tempo, quando si voleva tagliare un bosco o aprire una strada, bisognava chiedere il permesso fare un’analisi del bosco e del territorio e della sua geologia prima di dare l’ok al taglio, consigliando anche dove e come tagliare e come e fin dove realizzare strade, proprio per impedire frame e smottamenti. Il loro sfruttamento (tagli e strade) li rende insicuri e fragili! Chi gestiste deve controllare e seguire attentamente tutta la progettazione e le fasi cantieristiche. 


Si  ricorda che in piena crisi del riscaldamento climatico e conseguente crisi idrica, occorre sapere che un grande bosco con alberi di oltre 60 anni assorbe nelle falde acquifere una quantità tripla rispetto ad un misero bosco ceduo.
Il Documento che prova riguardo l’intoccabilità si chiama Evoluzione Darwiniana, l’unica legge e lingua che conosce la Natura, mentre quella umana è solo pura imposizione presuntuosa ed errata. L’essere umano è comparso 2/3 milioni di anni fa, pota e abbatte da 2000 anni, le foreste esistono da 300/400 milioni di anni.
Le autopotature degli alberi, le cadute in base all’età, o malattie in un  bosco, sono processi spontanei ed evolutivi che non hanno l’assoluto bisogno del governo umano. La selvicoltura è economia/reddito, né più e né meno della zootecnia per gli animali domestici e da reddito.


Non ha la silvicoltura la capacità né l’intento di migliorare nulla. Perché i boschi si migliorano in funzione della loro ecologia e biologia sistemica, che tiene conto di flora, fauna, funghi, batteri, terreno in Rete interattive dinamiche–evolutive, che non c’azzeccano nulla con l’approvvigionamento di legno e le biomasse assegnate alle ditte. Boschi anche in assenza di attività selvicolturali, evolvono in modo autonomo con caratteri che ne aumentano i servizi ecosistemici associati. Un bosco nasce, cresce, matura, invecchia, si rigenera. “L’errore umano è quello di considerare che il bosco maturo, possa  invecchiare e deperire, assumendo, per la misura del tempo che farebbe invecchiare il bosco, il trascorrere della vita dell’uomo” (F. Clauser)



© MARA LORETI – Geologa e naturalista

sabato 9 novembre 2019

Alghe... in cortile

Oltre il muschio e i licheni: sulla ghiaia dello stradello davanti a casa sono cresciute delle alghe… Sembra Nostoc, una delle tante specie di colonie di cianobatteri azotofissatori di acqua dolce, che sono costituiti da cellule rotondeggianti avvolte in una massa gelatinosa verde. Hanno la capacità di attuare la fotosintesi. La Nostoc viene anche chiamata Spuma di Primavera
Direi che a pioggia siamo a posto.

mercoledì 6 novembre 2019

La regina Elisabetta non indosserà più pellicce vere, la svolta animalista di Buckingham Palace

6 novembre 2019 - The Queen goes cruelty free: qualsiasi nuovo capo realizzato per sua Maestà Elisabetta che richieda inserti in pelliccia, compresi cappotti, cappelli e abiti da cerimonia, d’ora in poi sarà sarà sintetico ed ecologico. Niente più pellicce fatte a discapito degli animali, quindi, e nel Regno Unito si parte proprio dalla sovrana ormai 93enne.

regina elisabetta 

A rivelarlo è Angela Kelly, la designer della regina, che nel suo memoir The Other Side of the Coin: The Queen, the Dresser and the Wardrobe racconta che in realtà da quest’anno Elisabetta II indosserà pellicce vere soltanto nelle occasioni ufficiali, come l’ermellino per l’apertura annuale del Parlamento, e che il cambio di direzione riguarderà solo i nuovi indumenti.

Bene ma non benissimo quindi, ma gli animalisti applaudono comunque al gesto e allo sforzo verso un abbigliamento più sostenibile. Elisabetta era stata di fatto più volte criticata dalle organizzazioni per i diritti degli animali per aver continuato a indossare pellicce, nonostante le numerose case di alta moda abbiano via via abbandonato l’uso del prodotto “crudele”.
Siamo entusiasti che Sua Maestà sia ufficialmente libera dalle pelliccedice Claire Bass, animalista e direttrice esecutiva di Humane Society International. La decisione della regina Elisabetta di usare il sintetico è il riflesso perfetto dell’umore del pubblico britannico. La stragrande maggioranza detesta infatti la pelliccia vera e non vuole avere nulla a che fare con essa. Il Regno Unito ha vietato l’allevamento di pellicce quasi due decenni fa perché era considerato troppo crudele, ora dobbiamo finire il lavoro e vietare anche le vendite di pellicce“.
Il Regno Unito è stato infatti il primo Paese al mondo a vietare l’allevamento di animali da pelliccia per motivi etici, sebbene permetta comunque di importare pellicce di animali da altri Paesi come Finlandia, Polonia e Cina.
Molte case di moda hanno vietato la pelliccia vera dopo le proteste di organizzazioni per i diritti degli animali, tra cui Gucci, Calvin Klein, Stella McCartney, Vivienne Westwood, Tommy Hilfiger, Versace, Armarni e Hugo Boss.

E in questa occasione anche PETA interviene: “Stiamo alzando un bicchiere di gin e Dubonnet per la compassionevole decisione della Regina di liberarsi della pelliccia. Nel 2019, nessuno può giustificare la sottomissione degli animali all’angoscia di essere ingabbiati a vita o catturati in trappole d’acciaio, fulminati e pelati per articoli di pellicce tossiche“.
regina elisabetta
Ben detto, ma anche la British Fur Trade Association (BFTA) ha da proferire la sua e, se da un lato azzarda a sostenere che una pelliccia vera rimane un prodotto sostenibile, perché privo di plastica e dura a lungo, dall’altro si fa convinta che: “La famiglia reale è stata in prima linea nella promozione del benessere degli animali e degli sforzi di conservazione in tutto il mondo per molti anni, ciò si allinea perfettamente con la pelliccia di provenienza responsabile“.
E continua: “La pelliccia vera è uno dei prodotti naturali più sostenibili e duraturi disponibili, quindi, nonostante ciò che affermano i gruppi per i diritti degli animali, siamo sicuri che la famiglia reale continuerà a indossare pellicce di provenienza responsabile“.
Da questa parte, accogliamo con entusiasmo l’iniziativa di Queen Elizabeth di non indossare più d’ora in poi capi fatti con gli animali, ma speriamo che la Royal Family vieti anche l’utilizzo delle pelli di orso per i copricapi tradizionali delle guardie reali o la caccia alla volpe di cui – si dice – Carlo è tanto appassionato.

Insomma, la strada per il Paradiso è lastricata di buone intenzioni, ma l’importante è cominciare!

 fonte: www.greenme.it

domenica 3 novembre 2019

Piove

Da ieri piove senza interruzione e di conseguenza aumenta l'acqua nell'Enza. I lavori che avevano fatto nel greto sembrano aver convogliato la corrente verso la sponda sinistra e il centro, ma quando l’Enza andrà in piena non si può prevedere sin dove arriverà l’acqua. Cmq. spero non si ripeta più quella notte di dicembre in cui la corrente aveva quasi superato l’argine e ho “dormito” vestita e col cappotto (era saltata la corrente elettrica e non funzionavano neppure il riscaldamento e le pompe dell’acqua potabile), pronta a salire in collina in caso di allagamento della casa.

giovedì 31 ottobre 2019

Uva italiana e pesticidi

Uva italiana, il lato oscuro: fino a 19 pesticidi in un grappolo. L’inchiesta del Salvagente

La rivista Il Salvagente ha fatto analizzare 16 campioni di uva bianca da tavola acquistata presso supermercati, discount e negozi bio tra i più frequentati, per misurarne la food safety. L’uva acquistata in un discount svetta nella black list con record di fitofarmaci riscontrati: ben 10 fungicidi e 9 insetticidi. Ma anche gli altri grappoli analizzati, tutti rigorosamente made in Italy, presentano tracce di 5-7 trattamenti chimici differenti, seppur nei limiti di legge per quanto riguarda i residui ammessi. A preoccupare è soprattutto l’effetto cocktail, per un frutto molto diffuso sulle tavole degli italiani (380 mila tonnellate all’anno il consumo medio)

Dalla Redazione
uva pesticidiEstremamente soggetta agli attacchi di insetti e agenti patogeni, l’uva è un frutto di non facile gestione dal punto di vista della coltivazione. “I trattamenti chimici che subisce sono numerosi, ed è quasi naturale attendersi degli acini molto contaminati”. A lanciare l’allarme è Il Salvagente, rivista mensile dedicata alla tutela dei consumatori diretta da Riccardo Quintili ed edita da Matteo Fago. Parlando di residui di fitofarmaci sull’uva, qual è il limite da non oltrepassare? E con quali conseguenze per la nostra salute?

uva pesticidiIl Salvagente ha cercato di scoprirlo portando in laboratorio 16 campioni di uva bianca da tavola acquistata presso supermercati, discount e negozi bio tra i più frequentati. “Nonostante le premesse e la consapevolezza di avere tra le mani un prodotto quasi certamente coltivato con l’ausilio di sostanze di vario genere, le sorprese non sono mancate”, si legge in una nota ufficiale veicolata dall’editore. La ricerca di trattamenti fitosanitari ha evidenziato infatti come gli acini di molti campioni presi in esame siano in qualche modo contaminati.
L’uva acquistata in un discount si aggiudica la maglia nera nella classifica stilata dal Salvagente in seguito alle analisi, stabilendo un vero e proprio record di fitofarmaci riscontrati: ben 10 fungicidi e 9 insetticidi. Ma anche negli altri grappoli, tutti rigorosamente made in Italy, la situazione cambia poco. Tutti i prodotti analizzati presentano tracce di 5-7 trattamenti chimici differenti.
Sebbene nemmeno nel prodotto più contaminato i singoli pesticidi non abbiano superato i limiti di legge, è bene ricordare che l’uva da tavola è un alimento da consumarsi fresco, buccia compresa, e al quale si richiede la maggior pulizia possibile. A preoccupare è soprattutto l’effetto cocktail, ovvero l’azione combinata di basse dosi di diversi principi attivi presenti contemporaneamente nell’alimento, con conseguenze per la salute ancora ignote. Un problema tutt’altro che secondario, considerando che nelle tavole italiane approdano ogni anno circa 380 mila tonnellate di uva da tavola, prevalentemente bianca come quella analizzata dal Salvagente nel numero di novembre, dove è presente la classifica integrale con i test di laboratorio.
In edicola con la rivista, ma anche acquistabile online sul sito del mensile, sarà disponibile il nuovo libro del Salvagente “Dacci oggi il nostro veleno quotidiano”, un libro inchiesta sul grande inganno dei pesticidi. Dal Ddt al glifosato, fino ai probabili protagonisti degli allarmi futuri, il volume di 132 pagine fa il punto sui pericoli e sugli interessi che hanno mosso il mercato per oltre mezzo secolo.

30 ottobre 2019 


Copyright: Fruitbook Magazine