Scimpanzé: tra empatia e dolore per la morte
Gli scimpanzé sono davvero in grado di comprendere la morte? Sebbene la consapevolezza ci sembri una caratteristica prettamente umana, a quanto pare l’uomo non è il solo ad avere coscienza della morte. Studi recenti hanno infatti dimostrato che anche gli scimpanzé sono in parte capaci di comprendere la morte.
La consapevolezza: una prerogativa non solo umana
Anche se in un primo momento è spontaneo pensare che l’uomo sia il solo a comprendere il fenomeno della morte, episodi verificatisi di recente hanno smentito questa convinzione.
A quanto pare infatti, anche gli scimpanzé in parte hanno la percezione della finitezza e sono capaci di provare dolore per la morte di un proprio simile. Tuttavia è ancora da chiarire che tipo di percezione abbiano questi animali di tale fenomeno. La capacità di dare confini e delimitare gli eventi è insita nella natura dell’uomo e quindi, di conseguenza, anche la capacità di delimitare la vita e comprenderne la finitezza lo è. Per quanto riguarda gli scimpanzé questo aspetto è ancora da analizzare.
Non è ben chiaro infatti se le scimmie antropomorfe in questione riescano anch’esse a comprendere da subito la finitezza della vita o se lo realizzino solo al momento della morte di un proprio simile, testimonianza concreta del fenomeno.
Resta però un dato di fatto che dinanzi alla morte di un proprio simile a lui caro, uno scimpanzé non resta impassibile. Egli dimostra un dolore ed un’empatia che denotano una comprensione, seppur parziale, dei fenomeni di distacco e di perdita permanente.
Episodi e testimonianze tra gruppi diversi di scimpanzé
Diversi esperimenti sono stati effettuati grazie ai quali esperti hanno potuto osservare il comportamento di diversi gruppi di scimpanzé di fronte all’ evento della morte. Tali episodi sono stati una valida testimonianza, nonché prova del livello di consapevolezza che queste scimmie possono raggiungere.
Un episodio rilevante è stato quello osservato dal dipartimento di psicologia della University of Stirling in U.K. con a capo della ricerca Jim Anderson. In particolare, è stato monitorato il comportamento dello scimpanzé Rosie durante e dopo la morte di sua madre. Rosie e la compagna di lunga data della madre, Blossom, hanno chiaramente mostrato segni di dolore e atteggiamenti ansiogeni.
I due esemplari controllavano il corpo della madre di Rosie ormai morta e le accarezzavano mani e braccia. Inoltre i due scimpanzé hanno manifestato nei giorni seguenti l’evento segni di inappetenza, insonnia ed hanno evitato di tornare nel luogo di morte della madre di Rosie.
Altri episodi di morti accidentali precedentemente descritti non avevano suscitato questo genere di reazioni all’interno di altri gruppi. La caduta di uno scimpanzé da un albero infatti aveva generato solo quella tipica sensazione di frenesia e caos data dalla percezione di un pericolo.
Quando gli scimpanzé provano dolore?
Gli episodi precedentemente descritti dimostrano come i vincoli affettivi giochino un ruolo fondamentale nella percezione del dolore.
Dallo studio del comportamento dei vari scimpanzé è emerso infatti che non tutti gli esemplari reagiscono dinanzi alla morte allo stesso modo. Le reazioni e gli atteggiamenti assunti variano a seconda dei vincoli affettivi che caratterizzano i rapporti tra gli individui. Tale riscontro denota l’importanza che i legami hanno per questi animali e come la diversa intensità delle relazioni che instaurano tra loro amplifichi o minimizzi il senso del dolore.
A quanto pare è dunque proprio la presenza di un legame affettivo che accentua la natura traumatica di un distacco permanente, come quello della morte. La morte infatti impedisce di continuare ad avere contatti con il defunto, rendendo impossibile continuare a prendersene cura. Se un legame forte è caratterizzato, come nel caso di Rosie, da un attaccamento materno, fatto di cure ed attenzioni, la perdita dell’altro ha un forte impatto.
Uomo, gorilla e scimpanzé: un DNA comune, quasi
Grazie ad un’equipe britannica che ha recentemente sequenziato il genoma di Kamilah, esemplare di gorilla dello zoo di San Diego, è stato possibile aggiungere un ulteriore tassello alla questione della parentela tra l’uomo e le grandi scimmie. Si è infatti scoperto che sebbene per il 70% il DNA umano somigli più a quello degli scimpanzé, un buon 15% somiglia più a quello dei gorilla.
Era già noto prima di tale ricerca che l’uomo condividesse circa il 99% del suo DNA con lo scimpanzé comune. Ciò nonostante, è da precisare che lo scimpanzé presenta ben 24 cromosomi che nell’uomo sono poi diventati 23 nel corso dell’evoluzione, grazie alla selezione naturale e alle mutazioni casuali.
Tuttavia, l’aver comparato il genoma di Kamilah con quello dell’uomo ha aperto l’orizzonte a nuove sfide. Nuovi interrogativi sulle linee evolutive sono emersi, lasciando però invariate le fondamenta dell’albero evolutivo.
Queste scoperte però, non devono trarre in inganno. Anche se condividiamo una buona parte del nostro DNA con i gorilla e gli scimpanzé non è la quantità a fare la differenza. Anche minuscole porzioni di DNA diverse possono determinare enormi variazioni e differenze tra individui di diversa specie. Proprio quell’ 1% di DNA non comune, infatti, apparentemente minuscolo, racchiude tutto quello che ci distingue dagli scimpanzé ed i milioni di anni di evoluzione che sono serviti affinché fosse così.
Ciononostante, le differenze tra essere umani e scimpanzé non sono così marcate come molti pensano. Di certo gli aspetti da esplorare sono ancora molti, così come le incognite che circondano questo fenomeno. Una cosa però è certa: non siamo i soli capaci di provare dolore per la scomparsa dei nostri cari.
Carla Aversano
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