lunedì 30 dicembre 2019

La sentenza della Cassazione: “Non è reato rubare animali per salvarli dai maltrattamenti”


ANSA


I giudici hanno infatti stabiilito che il gesto degli attivisti non è equiparabile a un furto in abitazione, come era stato deciso in appello. La liberazione dei Beagle non è stato un gesto premeditato e non ha portato un vantaggio agli attivisti: si è trattato di un atto compiuto per salvare gli animali dai maltrattamenti e non per impossessarsene indebitamente.

«L’uomo ha sempre manifestato verso gli animali, in quanto essere senzienti, un senso di pietà e di protezione, quando non anche di affetto. Da qui l’esistenza, in tutte le epoche storiche, di precetti giuridici, essenzialmente di natura pubblicistica, posti a salvaguardia e a tutela degli animali», si legge nelle motivazioni depositate dalla Corte.


«Se l'utilità perseguita dall'autore del furto deve essere connessa alla cosa oggetto dell'impossessamento e non all'azione in sé, non è comprensibile quale sia se si esclude vi possa essere un dolo nel liberare gli animali che sono stati sottoposti a maltrattamenti», aggiungono i giudici. Con l'annullamento della sentenza da parte della corte ora la palla passa alla corte d'Appello, che dovrà prendere una nuova decisione.

www.lastampa.it

domenica 22 dicembre 2019

WaveStar: Energia pulita illimitata dalle onde del mare in Danimarca


8 settembre 2019 - La traduzione letterale dall’inglese di WaveStar, è appunto Stella delle Onde, e sta a significare una brillante idea per la produzione di energia pulita illimitata, sfruttando la forza continua delle onde, superando il concetto di sfruttamento del forte vento del mare con gli impianti eolici offshore.


Idea e concetto innovativo di WaveStar

Il concetto è stato inventato dagli appassionati di vela Niels e Keld Hansen nel 2000. La sfida era quella di creare una produzione regolare di energia onde oceaniche distanti 5-10 secondi.
Ciò è stato ottenuto con una fila di boe semisommerse, che si alzano e si abbassano a loro volta mentre l’onda passa, formando la parte iconica del design di Wavestar. Ciò consente di produrre continuamente energia nonostante le onde siano periodiche.
L’esclusivo sistema di protezione dalle tempeste della macchina, uno dei molti aspetti brevettati del progetto, garantisce la sopravvivenza in mare della macchina e rappresenta una vera pietra miliare nello sviluppo delle macchine a energia d’onda.
L’energia delle onde svolgerà un ruolo cruciale nel garantire il nostro futuro energetico, ma sopravviveranno solo le macchine in grado di resistere alle tempeste più forti.
Le questioni climatiche e ambientali richiedono una rapida diversificazione verso più fonti rinnovabili al fine di soddisfare le nostre future esigenze energetiche. Wavestar lavorerà in armonia con altri metodi di energia pulita per supportare il movimento di energia alternativa e garantire un approvvigionamento continuo di energia pulita. Immagina cosa possiamo fare insieme.

Come funziona

L’impianto di WaveStar trae energia dalla potenza delle onde con galleggianti che salgono e scendono con il movimento su e giù delle onde. I galleggianti sono fissati con le braccia a una piattaforma che si trova su enormi gambe fissate al fondo del mare. Il movimento dei galleggianti viene trasferito tramite propulsione idraulica nella rotazione di un generatore, producendo elettricità.
Le onde percorrono la lunghezza della macchina, sollevando a sua volta 20 galleggianti. Alimentare il motore e il generatore in questo modo consente una produzione continua di energia e una produzione regolare.


Questo è un nuovo standard radicale e un concetto unico nell’energia dalle onde oceaniche o marine; è uno dei pochi modi per convertire la potenza delle onde fluttuanti nella rotazione ad alta velocità necessaria per generare elettricità.

Gli aspetti positivi di WaveStar e il futuro energetico

La macchina Wavestar è meno visibile e più silenziosa delle turbine eoliche e ha anche un impatto positivo sulla fauna selvatica sotto la macchina, creando una zona protetta dalla pesca.
Le macchine di prova e ricerca operano nel Mare del Nord e nei fiordi danesi dal 2006 e sono tra le prime macchine a energia d’onda ad essere collegate alla rete.

Con la macchina da 500 kW in fase di sviluppo, l’azienda ha conquistato una posizione tra i principali sviluppatori di energia alternativa al mondo.

WaveStar punta a renderla la prima macchina da 1 MW prodotta in serie per grandi oceani, pronta per la vendita nel 2017.Wave Star non si ferma qui però. La macchina sarà quindi raddoppiata per dimensioni, in grado di gestire il doppio dell’altezza dell’onda.
Ciò aumenterà la potenza di ogni macchina a 6 MW, consentendo a una singola macchina di fornire energia per 4.000 case.

Almeno sulla carta, questi sono numeri impressionanti. Il progetto Wavestar punta davvero ad essere una delle più importanti innovazioni nel mondo delle energie rinnovabili. Gli oceani del globo insieme rappresentano circa 1,35 miliardi di chilometri cubi. Sono 1.260.000.000.000.000.000.000 di litri d’acqua.
Gli studiosi più importanti del settore credono che se solo una frazione del potere cinetico delle maree oceaniche venisse catturato, ciò soddisferebbe le esigenze energetiche del mondo più volte.

Per questo auspichiamo che il nuovo governo italiano, che si è presentato con un’aurea green e ha messo tra i suoi punti lo sviluppo sostenibile al minimo impatto ambientale attraverso tutte le forme di energia pulita, vista l’abbondanza di territorio marino nazionale, possa individuare quanto prima dei siti adatti a questo tipo di impianti e iniziare a lavorare sin da subito su questo tipo di innovazione tecnologica.

Gino Favola

Fonti:
Wavestar.com
www.wearesalt.org

mercoledì 18 dicembre 2019

Scimpanzé: tra empatia e dolore per la morte





scimpanzé
Gli scimpanzé sono davvero  in grado di comprendere la morte? Sebbene la consapevolezza ci sembri una caratteristica prettamente umana, a quanto pare l’uomo non è il solo ad avere coscienza della morte. Studi recenti hanno infatti dimostrato che anche gli scimpanzé sono in parte capaci di comprendere la morte. 


La consapevolezza: una prerogativa non solo umana 

Anche se in un primo momento è spontaneo pensare che l’uomo sia il solo a comprendere il fenomeno della morte, episodi verificatisi di recente hanno smentito questa convinzione.
A quanto pare infatti, anche gli scimpanzé in parte hanno la percezione della finitezza e sono capaci di provare dolore per la morte di un proprio simile. Tuttavia è ancora da chiarire che tipo di percezione abbiano questi animali di tale fenomeno. La capacità di dare confini e delimitare gli eventi è insita nella natura dell’uomo e quindi, di conseguenza, anche la capacità di delimitare la vita e comprenderne la finitezza lo è. Per quanto riguarda gli scimpanzé questo aspetto è ancora da analizzare.
Non è ben chiaro infatti se le scimmie antropomorfe in questione riescano anch’esse a comprendere da subito la finitezza della vita o se lo realizzino solo al momento della morte di un proprio simile, testimonianza concreta del fenomeno.
Resta però un dato di fatto che dinanzi alla morte di un proprio simile a lui caro, uno scimpanzé non resta impassibile. Egli dimostra un dolore ed un’empatia che denotano una comprensione, seppur parziale, dei fenomeni di distacco e di perdita permanente.


Episodi e testimonianze tra gruppi diversi di scimpanzé 

Diversi esperimenti sono stati effettuati grazie ai quali esperti hanno potuto osservare il comportamento di diversi gruppi di scimpanzé di fronte all’ evento della morte. Tali episodi sono stati una valida testimonianza, nonché prova del livello di consapevolezza che queste scimmie possono raggiungere.
Un episodio rilevante è stato quello osservato dal dipartimento di psicologia della University of Stirling  in U.K. con a capo della ricerca Jim Anderson. In particolare, è stato monitorato il comportamento dello scimpanzé Rosie durante e dopo la morte di sua madre. Rosie e la compagna di lunga data della madre, Blossom, hanno chiaramente mostrato segni di dolore e atteggiamenti ansiogeni.
I due esemplari controllavano il corpo della madre di Rosie ormai morta e le accarezzavano mani e braccia. Inoltre i due scimpanzé hanno manifestato nei giorni seguenti l’evento segni di inappetenza, insonnia ed hanno evitato di tornare nel luogo di morte della madre di Rosie.
Altri episodi di morti accidentali precedentemente descritti non avevano suscitato questo genere di reazioni all’interno di altri gruppi. La caduta di uno scimpanzé da un albero infatti aveva generato solo quella tipica sensazione di frenesia e caos data dalla percezione di un pericolo.


Quando gli scimpanzé provano dolore?

Gli episodi precedentemente descritti dimostrano come i vincoli affettivi giochino un ruolo fondamentale nella percezione del dolore.
Dallo studio del comportamento dei vari scimpanzé è emerso infatti che non tutti gli esemplari reagiscono dinanzi alla morte allo stesso modo. Le reazioni e gli atteggiamenti assunti variano a seconda dei vincoli affettivi che caratterizzano i rapporti tra gli individui. Tale riscontro denota l’importanza che i legami hanno per questi animali e come la diversa intensità delle relazioni che instaurano tra loro amplifichi o minimizzi il senso del dolore.





esemplari di scimpanzé con i propri cuccioli
esemplari di scimpanzé con i propri cuccioli
A quanto pare è dunque proprio la presenza di un legame affettivo che accentua la natura traumatica di un distacco permanente, come quello della morte. La morte infatti impedisce di continuare ad avere contatti con il defunto, rendendo impossibile continuare a prendersene cura. Se un legame forte è caratterizzato, come nel caso di Rosie, da un attaccamento materno, fatto di cure ed attenzioni, la perdita dell’altro ha un forte impatto.



Uomo, gorilla e scimpanzé: un DNA comune, quasi

Grazie ad un’equipe britannica che ha recentemente sequenziato il genoma di Kamilah, esemplare di gorilla dello zoo di San Diego, è stato possibile aggiungere un ulteriore tassello alla questione della parentela tra l’uomo e le grandi scimmie. Si è infatti scoperto che sebbene per il 70% il DNA umano somigli più a quello degli scimpanzé, un buon 15% somiglia più a quello dei gorilla.





esemplare di gorilla da confrontare con quello di scimpanzé, presente nell'immagine successiva
esemplare di gorilla
Era già noto prima di tale ricerca che l’uomo condividesse circa  il 99% del suo DNA con lo scimpanzé comune. Ciò nonostante, è da precisare che lo scimpanzé presenta ben 24 cromosomi che nell’uomo sono poi diventati 23 nel corso dell’evoluzione, grazie alla selezione naturale e alle mutazioni casuali.
Tuttavia, l’aver comparato il genoma di Kamilah con quello dell’uomo ha aperto l’orizzonte a nuove sfide. Nuovi interrogativi sulle linee evolutive sono emersi, lasciando però invariate le fondamenta dell’albero evolutivo.
Queste scoperte però, non devono trarre in inganno. Anche se condividiamo una buona parte del nostro DNA con i gorilla e gli scimpanzé non è la quantità a fare la differenza. Anche minuscole porzioni di DNA diverse possono determinare enormi variazioni e differenze tra individui di diversa specie. Proprio quell’ 1% di DNA non comune, infatti, apparentemente minuscolo, racchiude tutto quello che ci distingue dagli scimpanzé ed i milioni di anni di evoluzione che sono serviti affinché fosse così.
Ciononostante, le differenze tra essere umani e scimpanzé non sono così marcate come molti pensano. Di certo gli aspetti da esplorare sono ancora molti, così come le incognite che circondano questo fenomeno. Una cosa però è certa: non siamo i soli capaci di provare dolore per la scomparsa dei nostri cari

Carla Aversano
www.lacooltura.com

giovedì 12 dicembre 2019

Natura

L’amore della «balena nonna» che si prende cura dei nipoti affamati


Uno studio scientifico sulle orche anziane getta una luce «umana» sulle «killer whales» che lottano per non estinguersi: nei mari del mondo ne sono rimaste 50mila 

di Michele Farina

L'amore della «balena nonna» che si prende cura dei nipoti affamati 
La nonna J2, scomparsa nel 2017 
 
Sappiamo quanto importanti siano i nonni nella crescita dei piccoli umani. Ora la stessa cosa si può dire per un mondo animale apparentemente molto lontano dal nostro: il mondo delle orche. E’ grazie anche al contributo delle «anziane» se le 50mila «killer whales» rimaste negli oceani riescono a sopravvivere (sempre più faticosamente) in un ambiente dove il cibo scarseggia.
Due famiglie
Le famiglie di orche sono matriarcali, con le femmine a guidare il branco. E dunque dobbiamo parlare del ruolo delle nonne, mentre i maschi adulti tendono a vivere solitari ed «egoisti» (un po’ come vecchi «orchi»). Uno studio scientifico apparso sulla rivista americana Proceedings of the National Academy of Sciences racconta la vita delle orche senior all’interno dei clan di appartenenza. I ricercatori diretti da Stuart Nattrass (Università di Hull, in Inghilterra) hanno preso in considerazione due gruppi distinti che vivono lungo le coste americane del Pacifico, tra Stati Uniti e Canada, al largo dello Stato di Washington e della British Columbia. Sono famiglie a rischio di sopravvivenza: la prima conta oggi soltanto 73 esemplari, a cui si aggiungono quattro preziosissime nonne. La scarsità di cibo è dovuta soprattutto alla diminuzione dei salmoni, che costituiscono l’alimento base. Studiando il censimento delle orche negli anni, i ricercatori hanno documentato che dove ci sono le nonne c’è più possibilità che i piccoli crescano sani.
Tanta esperienza
Le nonne orche curano i nipoti mentre le mamme cercano le prede. E loro stesse, con le conoscenze di una lunga vita, sono in grado di ritrovare le migliori zone di pesca per la famiglia. Vita lunga come quella degli umani: le femmine di orca possono arrivare a 80-90 anni. Racconta al New York Times la dottoressa Deborah Giles, del Center for Conservation Biology della University of Washington. «E’ affascinante pensare a queste anziane predatrici dei mari, che spendono gran parte della loro esistenza post-riproduttiva continuando a prendersi cura della famiglia. Non accade spesso nel mondo animale».
Chiave evolutiva
Lo fanno le elefantesse, per esempio. Le orche vanno in menopausa intorno ai 30-40 anni. A quel punto, da una cruda prospettiva evoluzionistica, hanno già «dato» abbastanza. Perché la natura «le fa vivere» ancora così a lungo? E’ proprio il loro amorevole lavoro di cura per il gruppo a confermare il cosiddetto «effetto nonna» di cui parlano gli esperti di biologia evolutiva. Se ci sono le nonne, i nipoti hanno più possibilità di farcela.
Il salmone condiviso
La dottoressa Giles racconta di una nonna orca ribattezzata J2, ripresa dall’alto nell’oceano in un giorno del 2016, un’anno prima della sua morte. J2 detta Granny aveva almeno 75 anni (ma forse anche 100), l’età e le difficoltà l’avevano resa sempre più magra e fragile. Le immagini la mostrano accanto a una piccola, rimasta da poco orfana. La vecchia «balena assassina» quel giorno doveva avere una gran fame, avrebbe potuto divorare il salmone appena catturato in un sol bocconcino, e invece accettò di condividerlo con la nipotina. Ah, che nonna. 

12 dicembre 2019
www.corriere.it

martedì 10 dicembre 2019

Le piante emettono ‘urla ultrasoniche’ quando vengono tagliate

 
10. dicembre 2019 - Siamo abituati a considerare le piante come esseri immobili, inermi, incapaci di comunicare o di percepire l’ambiente circostante.
La realtà è però molto diversa e, se alberi e piante non fossero in grado di comunicare tra loro e reagire alle condizioni esterne non potrebbero difendersi e non avrebbero potuto sopravvivere sulla Terra per centinaia di milioni di anni.
Sappiamo da tempo che una delle strategie di difesa e comunicazione delle piante avviene grazie alla produzione di molecole volatili che fungono da richiamo per gli insetti impollinatori, da repellente per i predatori o che possono servire ad avvisare altre specie su imminenti pericoli.

Un’altra modalità di comunicazione vegetale consiste nell’emissione di ultrasuoni e proprio su questa strategia si sono concentrati i ricercatori dell’’Università di Tel Aviv.

Il recente studio ha indagato sulla capacità delle piante di generare suoni in condizioni di stress, tra cui la carenza di acqua o il taglio degli steli.
I ricercatori hanno effettuato i test sulle piante di tabacco e di pomodoro, posizionando microfoni a circa 10 centimetri e sottoponendo le colture a condizioni di siccità e danni alle foglie e agli steli.

In seguito a eventi stressanti, le piante hanno emesso ultrasuoni tra i 20 e 100 kilohertz, una frequenza non percepibile dall’orecchio umano ma rilevabile da altri organismi fino a diversi metri di distanza.

La ricerca ha evidenziato che il numero di “urla ultrasoniche” emesse dalle piante variava in base al tipo di stress cui erano sottoposte.

Le piante di pomodoro a cui è stato tagliato il gambo hanno emesso circa 25 urla all’ora, mentre quelle di tabacco che hanno subito lo stesso danno hanno generato 15 strilli ogni ora.
Quando le piante sono state private dell’acqua il numero di suoni rilevati è cambiato: nel pomodoro sono aumentati a 35 all’ora, mentre nel tabacco sono scesi a 11.

Le piante che non hanno subito alcun tipo di stress, hanno invece emesso un solo suono nell’arco di 60 minuti.
Perché le piante urlano quando sottoposte a stress e perché il numero delle urla varia in base allo stress subito? Probabilmente si tratta di una strategia per avvisare altre specie non solo del pericolo imminente, ma anche per offrire informazioni sul tipo di pericolo, così che gli altri esemplari possano mettere in atto meccanismi di difesa specifici per affrontare la situazione nel migliore dei modi.

I risultati dello studio, oltre a farci mettere in discussione l’idea che il mondo vegetale sia silenzioso, offrono uno strumento interessante che potrebbe essere sfruttato nella ricerca e in agricoltura.

Per comprendere meglio l’emissione sonora e le interazioni con l’ambiente dei vegetali sono però necessari ulteriori indagini che analizzino ad esempio l’impatto di malattie, stress salino e cambiamenti della temperatura sulla produzione dei suoni.

www.greenme.it

venerdì 6 dicembre 2019

Così si parlano le piante: gli alberi cantano e i semi prendono decisioni

La vita degli organismi vegetali prevede forme di comunicazione e interazione che presentano sorprese. Le radici segnalano allarmi e creano alleanze tra specie diverse 

di Anna Meldolesi
 
Gli alberi cantano. Le piante si scambiano regali. I semi prendono decisioni. A sostenerlo non è qualche profeta del pensiero new age, ma una pattuglia di botanici che scrivono libri di successo e pubblicano studi su riviste prestigiose. La scienza dispone ormai di strumenti tecnologici avanzati per studiare la vita segreta delle piante. E noi cittadini urbani siamo abbastanza stanchi di smog e cemento da aver voglia di guardare le nostre amiche clorofilliane con occhi nuovi.
Esseri sociali
Provate per un attimo a «sentirla» la vita vegetale, come il barone rampante di Calvino che viveva in mezzo agli alberi. Non possono spostarsi, ma cambiare lentamente forma sì. Non hanno neuroni e non sono capaci di astrazioni, ma sono esseri sociali. Altro che stato vegetativo, le piante non sono immobili, passive né isolate come siamo abituati a figurarcele. Un lavoro pubblicato recentemente su Pnas sostiene che nei semi esistono cellule che decidono se germogliare, in modo simile a un gruppo di amici che si accorda per andare al cinema. Mentre è noto che la cosiddetta Venere acchiappamosche è capace di contare. La sua trappola non scatta al primo stimolo, aspetta altri contatti a intervalli ravvicinati, per ridurre il rischio di scattare a vuoto. Certo è solo un fenomeno elettrico, ma assomiglia a una computazione.
Nouvelle vague verde
Se si scomoda la categoria dell’intelligenza vegetale gli studiosi classici finiscono per litigare con i biologi della nouvelle vague verde, che in Italia ha come capofila Stefano Mancuso. Ma su un punto gli studiosi sembrano d’accordo: la botanica sta attraversando una fase di vitalità dinamica. «Con gli approcci figli della genomica è possibile studiare la biodiversità delle molecole. Il linguaggio delle piante è chimico, si esprime nel metabolismo secondario e stiamo imparando a decifrarlo», spiega Renato Bruni, botanico dell’Università di Parma e autore di diversi libri tra cui Le piante son brutte bestie ed Erba volant. L’importante è stare attenti a non antropomorfizzare troppo. «La bellezza delle piante sta nell’essere diverse da noi, aliene», dice Bruni.
Tattiche efficaci
Sotto le foreste c’è una fitta trama di interazioni radicali che è stata soprannominata «wood wide web» come se fosse un’Internet del mondo vegetale. Questa rete consente il passaggio di molecole utili anche tra specie diverse come betulle e abeti, per accorgersene basta tracciarle radioattivamente. Se fossero persone, diremmo che si scambiano dei doni. Alcune tattiche di interazione sono risapute: le piante inviano messaggi seduttivi agli impollinatori, ripagando i loro servizi in nettare, mentre usano sostanze repellenti per tenere alla larga i predatori. Ma le sceneggiature si stanno facendo via via più complicate. Siccome i nemici dei nemici sono amici, quando si è sotto attacco può valere la pena di mostrarsi dolci per attirarli. In altri casi succede il contrario: lo zucchero può essere allontanato dalle foglie vicine a quelle morse da un bruco, per renderle meno appetibili. E se altre piante lì vicino captano nell’aria il segnale d’allarme, meglio per loro: sono avvisate e mezze salvate.
Suoni nella foresta
Fra le scoperte che colpiscono l’immaginazione c’è il fatto che le conifere, in condizioni di siccità, emettono dei suoni per un fenomeno fisico legato al movimento dei fluidi (cavitazione). La musica degli alberi è affascinante, anche se questi schiocchi sono segnali di difficoltà e attirano parassiti pronti a sfruttare l’occasione. Le letture belligeranti comunque sono riduttive, sostiene la rivista Nature Plants. Le piante a volte avviano negoziati con parassiti e patogeni, più che campagne militari. E in fondo è proprio questo che ci piace: che si stringano alleanze tra piante e microrganismi e anche tra piante compagne. «Dopo tanti documentari sulla lotta per la sopravvivenza, con la gazzella che deve correre più veloce del leone, abbiamo la possibilità di una narrazione alternativa. Più amichevole, incentrata sulla cooperazione», conclude Bruni.

(4.dic.2017) 
www.corriere.it